Nascita di un adolescente

I parte

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    CONTENUTO EROTICO E SESSUALE
    QUESTO RACCONTO NON E' ADATTO AD UN PUBBLICO MINORE DI 18 ANNI
    SE SEI MINORENNE TI INVITIAMO A LASCIARE IMMEDIATAMENTE QUESTA PAGINA



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    NASCITA DI UN ADOLESCENTE

    I parte

    Nei primi giorni d’estate Stefano e sua madre uscivano in mare con il pattino. Le prime volte, la madre aveva ingaggiato anche un marinaio, ma a Stefano la presenza dell’uomo annoiava. Da allora, i remi furono lasciati a lui.
    Egli remava con un piacere profondo su quel mare quieto e diafano del primo mattino e la madre, seduta di fronte, gli discorreva lieta e serena, come se lui fosse stato un uomo e non un ragazzo di tredici anni.
    La madre di Stefano non era una donna alta, ma era ancora una ragazza giovane e bella, nel fiore degli anni; Stefano provava un sentimento di fierezza ogni volta che s’imbarcava con lei per una di quelle gite mattutine. Gli sembrava che tutti i bagnanti della spiaggia li osservassero, ammirando sua madre e invidiando lui; convinto di avere tutti gli sguardi, gli sembrava che la sua voce fosse più forte, di gestire l’imbarcazione in una maniera particolare, di essere avvolto in un’aria teatrale ed esemplare e non sopra una spiaggia. Talvolta, la madre si presentava in un costume nuovo e lui non poteva fare a meno di notarlo ad alta voce.
    Appena si trovavano a grande distanza dalla riva, la madre diceva al figlio di fermarsi, si toglieva le infradito e scivolava in acqua. Stefano la seguiva; nuotavano intorno al pattino abbandonato. Talvolta si sfidavano a raggiungere per primi un tappo di sughero; lei concedeva al figlio un metro di vantaggio, poi, a grandi bracciate, partiva alla rincorsa. Oppure, gareggiavano a tuffarsi dal sedile del pattino. Stefano vedeva il corpo della madre inabissarsi e subito le si lanciava dietro, con desiderio di seguirla ovunque. Gli pareva che anche l’acqua dietro la sua scia serbasse la traccia del passaggio del corpo amato.
    Finito il bagno, risalivano sul pattino e la madre, guardando intorno diceva: “Com’è bello qui, vero?”.
    Stefano non rispondeva perché sentiva che il godimento di quella bellezza del mare e del cielo era dovuto soprattutto all’intimità profonda in cui erano immersi i suoi rapporti con la madre. Senza di lei, cosa sarebbe rimasto di quella bellezza?
    Restavano ancora a lungo ad asciugarsi al sole, avvicinandosi a mezzogiorno; poi la madre si distendeva sulla traversa che univa le due navicelle del pattino e, supina, pareva assopirsi, mentre Stefano, seduto sul banco, si guardava intorno senza fiatare, per timore di rubargli il sonno. A volte, la madre si girava e domandava a Stefano di porgergli il portasigarette o, più spesso, di accenderne una lui stesso, cosa che Stefano compiva con trepida attenzione. Altre volte ancora, lo pregava di remare e non voltarsi, intanto che lei si sarebbe tolta il reggipetto e avrebbe abbassato il costume sul ventre, in modo da esporre tutto il corpo ai raggi luminosi.
    Stefano remava e si sentiva fiero di questa incombenza, come di un rito a cui egli soltanto fosse concesso di partecipare. E non soltanto non gli passava per la mente di voltarsi, ma sentiva quel corpo lì dietro come avvolto in un mistero cui doveva la massima venerazione.
    Una mattina, la madre si trovava sotto l’ombrellone, e Stefano, seduto sulla rena accanto a lei, aspettava che arrivasse l’ora della gita in mare. D’un tratto, l’ombra di una persona ritta parò il sole davanti a lui: levati gli occhi, vide un giovane bruno e robusto che tendeva la mano alla madre. Non ci fece caso, pensando a una delle solite visite casuali e, tirandosi da parte, aspettò paziente che la conversazione terminasse.
    Ma il giovane indicò sulla riva il pattino bianco con il quale era venuto, invitando la madre.
    Stefano era sicuro che la madre avrebbe rifiutato questo come tanti altri simili inviti precedenti; grande perciò fu la sorpresa vedendola subito accettare, radunare la roba e levarsi dai piedi. La madre aveva accettato con la stessa spontaneità che metteva nei rapporti con il figlio. E con la stessa, si volse a Stefano e le disse di fare pure il bagno da solo che lei sarebbe tornata tra non molto. Il giovane, come sicuro del fatto suo, già si avviava; e la donna s’incamminò dietro di lui con la solita lentezza maestosa e serena.
    Il figlio, guardandoli, non poté fare a meno di pensare che quella fierezza, quella vanità e quell’emozione che provava durante le loro partenze in mare, adesso dovessero essere nell’animo di quel giovane. Questi remava e la madre, di fronte a lui, si teneva con le mani al sedile e chiacchierava. Poi il pattino gradualmente rimpicciolì, entrò nella luce abbagliante del sole spanta sulla superfice del mare, e si dissolse.
    Rimasto da solo, Stefano si distese sulla sedia a sdraio e con un braccio sotto la nuca, assumendo un atteggiamento riflessivo e indifferente. Gli pareva che, così come tutti i bagnanti dovevano aver notato nei giorni passati le sue partenze con la madre, non potesse esser loro sfuggito che quel giorno la madre l’avesse lasciato per un giovane.
    Per questo, egli non doveva assolutamente mostrare i sentimenti di disappunto e delusione che l’amareggiavano. Ma per quanto cercasse di darsi un’aria composta e serena, gli sembrava egualmente che tutti dovessero leggergli nei suoi innocenti occhi smeraldini l’inconsistenza di questo atteggiamento.
    Quello che lo offendeva non era che la madre fosse partita con il giovane, ma la felicità gioiosa con la quale aveva accettato l’invito.
    Era come se, durante tutti quei giorni in cui era uscita in mare con lui, si fosse sempre annoiata e che non ci fosse venuta che per mancanza di compagnia migliore.
    La stessa cosa che era accaduta a un ballo in casa di un amico cui si era recato insieme alla madre. Una cugina, disperata di vedersi negletta dai ballerini, aveva accettato un paio di volte di andare con lui, ragazzo dai pantaloncini. Ma aveva ballato senza impegno, con il muso lungo e sospirando piena di scontento. Stefano si era accorto di questo poco lusinghiero stato d’animo, tuttavia la invitò una terza volta e si era stupito di vederla d’un tratto sorridere e alzarsi di sollecito. Soltanto che, invece di correre tra le sue braccia, la cugina lo evitò, andando incontro a un giovane che, al disopra della spalla di Stefano, le aveva rivolto un cenno d’invito.
    Quel momento non durò che cinque secondi e nessuno se ne accorse fuorché Stefano stesso. Ma egli rimase oltremodo umiliato, come se tutti avessero notato lo smacco.
    E ora era uguale.
    In ambedue i casi, era accaduto di ruzzolare giù da un’illusione come da una montagna.

    -

    La madre rimase in mare un paio d’ore; dall’ombrellone la vide scendere a riva senza fretta e avviarsi verso la cabina.
    “Che cosa hai fatto?” gli chiese la madre con tono indifferente.
    “Mi sono divertito molto” incominciò Stefano, inventando di essere stato in mare con i ragazzi della cabina attigua. Ma già la madre non lo ascoltava più, correndo a cambiarsi.

    -

    Il giorno dopo, Stefano decise che, appena avesse visto il giovane in mare con il suo pattino bianco, si sarebbe allontanato con qualche pretesto. Non voleva soffrire per la seconda volta l’affronto di essere lasciato a terra. Ma, appena fece il gesto di allontanarsi, la madre lo richiamò.
    “Vieni” disse radunando la roba: “Si va in mare”.
    Stefano, pensando che ella avesse intenzione di congedare il giovane e restare sola con lui, la seguì. Ma la gioia e la stupefazione si tramutarono quando trovò il giovane aspettarli ritto sul pattino.
    “Porto anche mio figlio” esordì lei.
    E fu così che Stefano, assai scontento, si ritrovò seduto accanto alla madre, di fronte al giovane che remava.

    Stefano aveva sempre visto sua madre a un modo: dignitosa, serena, discreta. Fu assai stupito, durante la gita, di osservare il cambiamento avvenuto nei suoi modi così come nei discorsi. Quasi fosse un’altra persona.
    Erano appena partiti che la madre usciva con una frase pungente e allusiva, oscura per lui. E così aveva iniziato a conversare. Una conversazione pretestuosa, insistente, insinuante, quanto dispettosa e maliziosa. Dei due, la madre pareva la più aggressiva e, al tempo stesso, la più disarmata. Il giovane le rispondeva con calma e ironia, come sicuro del fatto suo.
    La madre pareva a momenti scontenta, addirittura adirata. Cosa che rallegrava Stefano. Ma, subito dopo, per sua delusione, una frase lusinghiera ne distruggeva questa impressione. Altre volte ancora, la madre muoveva al giovane, con tono risentito, una sfilza di oscuri rimproveri a cui questi, anziché offendersi, rispondeva con un’espressione di fatua vanità. E così, Stefano concluse che quei rimproveri non erano tali che in apparenza e che nascondessero un senso che lui non era in grado di afferrare.
    Di lui, poi, tanto la madre quanto il giovane parevano ignorarne l’esistenza.
    Una sola volta parve che la madre si ricordasse della sua presenza; e fu quando il giovane lasciò i remi e si chinò avanti, con un viso intensamente malizioso, sibilando sottovoce qualche parola che Stefano non udì, ma che ebbe il potere di far sobbalzare la madre di teatrale indignazione.
    “Almeno un po’ di riguardo per questo innocente…” esclamò indicando Stefano.
    Al sentirsi definire “innocente”, questi fremette di ripugnanza, come se gli avesse gettato un panno sporco in faccia.
    Lontani dalla riva, il giovane propose alla madre di fare il bagno. Allora Stefano, che aveva sempre ammirato la discrezione e la semplicità di sua madre, non poté che osservare dolorosamente gli inediti gesti che ora essa metteva in scena. Il giovane si era già tuffato ed era rispuntato dall’acqua, che lei ancora esitava ad assaggiare l’acqua con il piede, fingendo ritrosia. Infine, dopo lunghe pantomime, si lasciò cadere malamente tra le braccia del compagno. Stefano, rannicchiato sul sedile, vide il volto sorridente della madre e quello serio del giovane e gli parve che le guance si toccassero. Nell’acqua limpida, si potevano vedere i due corpi dimenarsi l’uno accanto all’altro, come desiderosi di intrecciarsi.
    Stefano guardava la spiaggia lontana e si sentiva superfluo e vergognoso.
    Alla vista del suo viso accigliato, la madre si accorse di lui per una seconda volta.
    “Perché stai così serio? Non vedi com’è bello qui? Dio mio! Che figlio serio che ho”.
    Stefano si riempì di umiliazione e vergogna, ma si limitò a girare gli occhi altrove.
    Il bagno durò a lungo; sembrava si fossero del tutto dimenticati di lui.

    -

    Finalmente risalirono.
    Il giovane rimontò in un balzo, aiutando la madre che invocava il suo aiuto. Stefano guardava il giovane che, nell’aiutare la madre, affondava le dita nella carne bruna, la dove il braccio è più dolce e largo, tra l’omero e l’ascella. Poi ella sedette sorridendo e sospirando vicino a Stefano. E con un gesto delle unghie, si staccò dal petto il costume fradicio, in modo che non ci aderissero le punte dei capezzoli e le rotondità dei seni. Ma Stefano ricordava che, quando erano soli, la madre non aveva bisogno di alcun aiuto per issarsi sul pattino e attribuì quella richiesta d’aiuto e tutti quei dimenamenti al nuovo spirito che aveva operato in lei già molti sgradevoli mutamenti. In verità, non poté non pensare che sembrava che la madre si disfacesse volentieri di quella noiosa dignità, per sostituirla con una maldestra monelleria.
    Al ritorno, i remi furono affidati a Stefano, mentre i due sedettero sopra la traversa che congiungeva le due navicelle. Stefano remava piano, chiedendosi che significato avessero tutte quelle risa, quelle voci e quei movimenti dietro di lui. Ogni tanto, la madre, come accorgendosi di lui, gli accarezzava la nuca, oppure gli solleticava l’ascella, domandagli si fosse stanco.
    “No, non sono stanco” rispondeva Stefano.
    “Gli fa bene remare” affermava ridendo il giovane.
    La madre si appoggiava con la testa al sedile dove stava Stefano, mantenendo per lo più le gambe stese. O almeno così parve a lui, perché, a un certo punto, ci fu un tramestio che sembrava una breve lotta, la madre parve quasi senza respiro e balbettò qualcosa mentre il pattino pendette da un lato. Fu un solo momento, ma Stefano si ritrovò contro la guancia il ventre della madre che gli parve vasto quanto il cielo e curiosamente pulsante.
    “Mi siedo se mi prometti che stai buono” fa lei rivolta al giovane.
    “Va bene” giurò lui con giocosa solennità.
    Goffamente, lei si lasciò scivolare nuovamente sulla traversa delle navicelle, e, nel farlo, sfregò il ventre contro la guancia del figlio.
    Rimase a Stefano, sulla pelle, l’umido del ventre bagnato, un umido quasi annullato e reso fumante da un calore più forte. E pur provandone un vivo senso di ripugnanza, non volle asciugarsi.
    Giunti nei pressi della riva, il giovane balzò fuori agilmente e afferrò i remi, scacciando Stefano, il quale fu costretto a sedere vicino alla madre.
    “Come va? Sei contento?” fa lei come se non si aspettasse alcuna risposta e cingendoli la vita con un braccio. Era un gesto insolito quanto ingiustificato.
    Oltremodo, non lasciò la presa, infradiciando Stefano con l’acqua del costume, che pareva riscaldata e resa simile ad una specie di sudore da quel suo acre, violento calore animale. E in quel quadretto, giunsero a riva.

    -

    Il giorno dopo, il giovane si ripresentò, la madre fece venire Stefano e si ripete la medesima recita del giorno prima.
    Poi, dopo un’interruzione di due giorni, ci fu una nuova gita.
    Stefano provava un vivo disgusto per quelle passeggiate e, alla fine, incominciò a ricorrere a mille pretesti pur di sottrarvisi: a volte scompariva finché la madre, dopo averlo chiamato e cercato a lungo, lo supplicava pietosamente di mostrarsi. Atteggiamento che, più che incutere compassione, ne destavano noia e disappunto. Alte volte ancora, si immusoniva sul pattino sperando che sua madre comprendesse e non lo invitasse più.
    Ma, invece, alla madre non importava altro che lui venisse. Dei suoi sentimenti non si curava più di tanto. E così, nonostante i suoi sforzi, le gite per lui continuarono.
    Capitò un giorno che Stefano stava seduto sulla rena dietro la sedia sdraio della madre, aspettando l’arrivo del pattino bianco. Ma l’ora in cui esso spuntava sul mare era già passata e la madre apparve delusa e annoiata.
    Stefano si era chiesto spesso cosa avrebbe provato in tal caso: aveva sempre pensato che la sua gioia sarebbe stata tanto grande quanto l’amarezza materna. Invece, non senti altro che una vuota delusione. Si accorse che ormai quelle ripugnanti gite abitudinarie erano divenute una ragione di vita. Così che, per un torbido e inconsapevole desiderio sadico verso la madre, le domandò se quel giorno non partissero per la solita gita in mare.
    Lei rispose ogni volta che non lo sapeva, ma che probabilmente quel giorno non sarebbero andati. Rimaneva seduta, con un libro sulle ginocchia che non leggeva; spesso adocchiava il mare, ormai riempito di bagnanti e di imbarcazioni, sperando invano in qualcosa.
    Dopo essere rimasto a lungo all’ombra della sedia della madre, Stefano strisciò sulla rena, girando intorno e ripetendo, con un tono che lui stesso avvertiva fastidioso e canzonatorio:
    “E’ proprio vero? Oggi non si va in mare?”.
    La madre sentì forte la canzonatura, irritandola; levò una mano e con un colpo che Stefano sentì molle, quasi involontario e pentito già mentre vibrava in aria, lasciò andare uno schiaffo molto forte sulla guancia del ragazzo.
    Stefano non disse nulla; fece una capriola sulla rena e si allontanò dalla spiaggia a testa bassa, verso le cabine.
    “Stefano! Stefano!” udì chiamare più volte. Poi il richiamo tacque. E voltandosi, tra tutti, gli parve di scorgere il pattino bianco.
    Ma ormai non gli importava nulla di tutto ciò, quasi che quel gesto fosse un tesoro e che essi corresse a nasconderlo.
    La guancia gli bruciava e aveva gli occhi piedi di lacrime che tratteneva a stento e, temendo che sgorgassero prima che giungesse in qualche riparo, corse curvo sopra se stesso.
    L’amarezza accumulata per tutti quei giorni in pattino con la madre e il giovane faceva ora rigurgito e quasi gli pareva che un pianto abbondante l’avrebbe illuminato di qualcosa di quelle oscure vicende.
    Quando giunse alla cabina, esitò alla ricerca di un posto dove rifugiarsi; infine, optò per la cabina stessa.
    Entrato al suo interno, andò a sedersi in un angolo sopra uno sgabello, sicuro di non essere disturbato. Si rannicchiò con le ginocchia contro il petto, la testa appoggiata alla parete e, presosi il viso tra le mani, incominciò coscienziosamente a piangere. Al cocente senso di umiliazione per il colpo ricevuto, si aggiungevano tutte le sensazioni sgradevoli che avevano ferito la sua sensibilità. Tra mille, quella che gli tornava con più insistenza alla memora era il ventre della madre bagnaticcio premuto contro la sua guancia, fremente e agitato da non si sa quale vogliosa vitalità.
    Perché, tra tante, gli era rimasta impressa e così viva proprio quella?
    Non avrebbe saputo dirlo.
    Nella cabina, c’era una rada e afosa oscurità; ebbe a un tratto la sensazione che la porta si aprisse e desiderò quasi che la madre, pentita e affettuosa, gli ponesse una mano sulla spalla e, prendendoli il mento, rivolgesse a sé il suo viso.
    Si stava già preparando a mormorare “mamma”, quando udì un passo entrare nella cabina e la porta richiudersi.
    Allora sollevò il capo e guardò. In piedi, in atteggiamento di chi spii, vide un ragazzo che gli parve coetaneo.
    Indossava un paio di pantaloni corti, dal bordo rimboccato, e una canottiera scollata. Un raggio sottile e fulgido di sole, passando tra le assi della cabina, faceva brillare, sopra la sua nuca, folti capelli color rame.
    Con le mani sulla fessura della porta, sorvegliava la spiaggia. Non si era accorto della presenza di Stefano.
    Questi si asciugò gli occhi con il torso della mano.
    “Di un po’… Cosa vuoi?”.
    L’altro si voltò e gli fece semplicemente cenno di tacere.
    Il suo viso era brutto e lentigginoso. Le pupille acquose e di un marrone torbido. Stefano pensò quasi di riconoscerlo; doveva aver spinto in mare i pattini o fare cose simili in prossimità dello stabilimento.
    “Sto giocando a guardie e ladri” disse dopo un po’, voltandosi verso Stefano.
    “Non debbono vedermi”.
    “Che cosa sei tu?” domandò Stefano passandosi nuovamente i palmi sugli occhi.
    “Un ladro no” rispose senza voltarsi.
    Stefano scrutò il ragazzo: non sapeva se gli stesse simpatico, ma quel suo rozzo accento romanesco lo incuriosiva. Inoltre, pur non sapendo dire per cosa, sentiva quell’ incontro un’occasione da sfruttare.
    “Mi fai giocare anche a me?” chiese ardito.
    Il ragazzino si voltò squadrandolo insolente.
    “Che centri tu?” fa: “Si gioca tra amici”.
    “E allora?” sbottò Stefano con vergognosa insistenza: “Che ti costa farmi giocare anche a me?”.
    Il ragazzo scosse le spalle: “Ormai è troppo tardi, abbiamo quasi finito…”.
    “Sarà per la prossima”;
    “Non ne facciamo altre” disse il ragazzino osservandolo dubbioso, stupito da tanta insistenza: “Dopo si va in pineta”.
    “Se volete vengo anch’io”.
    Il ragazzo si mise a ridere. Divertito e sprezzante.
    “Sei un bel tipo tu… Ma noi non ti si vuole…”.
    Stefano non si era mai trovato in quella condizione. Perché non voleva accettare la sua amicizia?
    “Senti… Se mi fai stare con voi… Ti do qualcosa…”.
    Avido, il ragazzo si voltò subito.
    “Che mi dai?”;
    “Quello che vuoi”.
    “Di te che mi vuoi dare”.
    Stefano indicò un veliero piuttosto grande, con tutte le vele appiccicate, che giaceva in fondo alla cabina insieme con altre cianfrusaglie.
    “Quello”.
    “E che me ne faccio?” disse facendo spallucce.
    “Lo vendi” propose Stefano.
    “E chi me lo prende?” rispose altezzoso: “E poi direbbero che l’ho rubato”.
    Stefano disperato si guardò intorno. Guardò verso i vestiti e le scarpe della madre; solo fazzoletti e cenci inutili. Non c’era proprio nulla che potesse offrirli.
    “Senti…” fa quello. “C’hai delle sigarette?”
    Stefano ricordò che proprio quella mattina sua madre aveva messo nel borsone che pendeva sull’attaccapanni due scatole nuove. Esultante, si affrettò a rispondere.
    “Sì, le ho… Le vuoi?”.
    “E mi domandi?” rispose con ironico disprezzo: “Dai scemo, dammele”.
    Stefano prese la borsa dall’attaccapanni, frugò dentro e ne trasse le due scatole che, incerto sulla quantità che l’altro volesse, mostrò al ragazzo.
    “Le prendo tutte e due” disse questi impudente, afferrandole subito.
    Guardò la marca e fece schioccare la lingua. Erano di suo gusto.
    “Di un po’… Sei ricco te?”.
    Stefano non sapeva cosa rispondere.
    “Io sono Boris. Tu?” proseguì lui.
    “Stefano”. Ma Boris non gli dava più retta, intento a rompere l’involucro e sfilare una sigaretta. Poi, dalla tasca, prese un fiammifero da cucina, l’accese sfregandolo su un asse di legno della cabina e, soffiata una prima boccata di fumo, riprese a guardare cautamente dalla fessura.
    “Andiamo” disse poco dopo, facendo un cenno. E i due, uno dietro l’altro, uscirono all’aria aperta.
    Camminarono sulla sabbia che già scottava sotto i loro piedi nudi, zigzagando tra i cespugli di ginestre e di cardi.
    “Andiamo alla tana… Ormai sono passati. Mi stanno cercando giù…” fa Boris.
    “Dov’è la tana?” domandò Stefano.
    “Al banco Vespasiano” rispose l’altro, tenendo la sigaretta tra due dita, sfoggiandola vanesio e aspirando profondamente.
    “Tu fumi?”;
    “Non mi piace” rispose Stefano che si vergognava di rispondere che non ci aveva mai neppure pensato se fumare o meno.
    Boris rise.
    “O piuttosto di che tua mamma non ti lascia… Di che è così”. Non c’era solidarietà in quelle parole. Comunque, porse la sigaretta a Stefano:
    “Su fuma…”.
    Erano giunti sul lungomare, camminando tra il pietrisco aguzzo.
    Stefano porse la sigaretta alle labbra, aspirando un po’ di fumo e rigettandolo subito fuori senza inghiottirlo.
    Boris rise con disprezzo.
    “Sarebbe fumare questo?” e poi: “Guarda come si fa”.
    Riprese la sigaretta, aspirò lungamente girando quelle sue pigre e acquose iridi, quindi spalancò la bocca e l’avvicino agli occhi di Stefano. La bocca era vuota, come egli poté confermare.
    “Ora guarda” disse Boris chiudendo la bocca. Questi, soffiò in faccia a Stefano una nuvola di fumo. Stefano tossì e rise trepidante.
    “Riprova” fa Boris.
    Stefano aspirò una nuova boccata e con uno sforzo penoso inghiottì il fumo. Ma questi gli andò per traverso ed egli non smise più di tossire lamentosamente.
    “Però… Gran fumatore” si limitò a dire Boris riprendendo la sigaretta e dandogli una gran manata sulla schiena.
    Dopo questo esperimento, camminarono in silenzio.
    Agli stabilimenti si seguivano altri stabilimenti, distinguibili per lo più per una diversa colorazione degli ombrelloni e dei loro archi.
    “Quanto manca?” domanda Stefano stufo di correre dietro a Boris.
    “E’ l’ultimo…”.
    Stefano cominciò a pensare se non fosse meglio fare dietrofront; era possibile che la madre lo stesse cercando. Il ricordo dello schiaffò soffocò quello scrupolo. Seguire Boris gli parve una sorta di oscura vendetta.
    “E il fumo dal naso?” domandò Boris d’improvviso: “Sai cacciarlo?”.
    Stefano scosse la testa e quelli non se lo fece chiedere.
    “Ora… Mi farò uscire il fumo dagli occhi!” soggiunse.
    “Tu però mi devi aiutare… Mettimi una mano sul petto e guardami dritto”.
    Ignaro, Stefano si avvicinò a lui, gli mise il palmo sul petto e guardò in quelle spiacevoli pupille, aspettando davvero di vedere uscire il fumo, e, invece, ritrovandosi una bruciatura sul dorso della mano. Lo scherzo di Boris era stato perfido. Come se non fosse abbastanza, questi fece un salto di gioia.
    “Scemo! Scemo! Ma quanto sei scemo?” gridò.
    Il dolore era così intenso da accecarlo. Istintivamente, il suo primo movimento fu verso Boris, nel tentativo di percuoterlo. Ma questi, appena vide Stefano corrergli contro, strinse i pugni e ne assestò due verso lo stomaco dell’altro, lasciando tramortito e senza fiato.
    “Non ci provare neanche” disse cattivo.
    “Se vuoi puoi andartene”.
    Furioso, Stefano ci riprovò, guadagnandosi una presa sotto l’ascella, fino alla testa. Boris quasi finì per strangolarlo davvero.
    Stefano, spaventato, smise di dibattersi, supplicando l’altro di perdonarlo. Boris non lo liberò subito e Stefano sentì lo scricchiolio delle vertebre del collo. Ma più che dalla paura di soffocare, rimase spaventato dall’incredibile brutalità di quel ragazzo che solo allora mollava la presa.
    Gli pareva incredibile che a lui, Stefano, cui tutti avevano sempre voluto bene, ora si potesse fare un male così spietato. Questa spietatezza lo stupiva e lo sgomentava fascinosamente.
    “Io non ti ho fatto nulla… Ti ho dato le sigarette… E tu…” ansimò Stefano, ma non finì la frase perché le lacrime gli riempirono gli occhi.
    “Uh, dai. Non comincerai a piangere?” fa Boris sarcastico.
    “Le rivuoi le sigarette? Dai, riprenditele e torna dalla mamma”.
    “Non importa…” disse Stefano sconsolato e scuotendo il capo.
    “L’ho detto così per dire… Tienile”.
    “E allora andiamo. Siamo arrivati”.
     
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