Nell'ombra

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    Nell'ombra


    Forse, un racconto di EricNorth




    Il cielo è cupo e minaccioso, sta per arrivare un temporale. Le lezioni sono finalmente finite, e il cortile è pieno di ragazzi degli ultimi anni che si affrettano a uscire dalla scuola e raggiungere le proprie auto per poter iniziare a godersi il fine settimana. Purtroppo osservo la scena attraverso un freddo e sporco finestrino dell’autobus. Sono ancora in terza e ovviamente non ho la patente, una stupidaggine se lo chiedete a me, personalmente credo che a sedici anni una persona sia abbastanza matura da poter guidare. Quindi, come al solito aspetto al mio posto che l’autobus si riempia. Ascolto un po’ di musica, mi ci perdo. La musica fa parte di me da sempre, è come intrecciata alla mia anima e mi aiuta ad elaborare emozioni e sentimenti. In breve, guardo fuori dal finestrino mentre ascolto le dolci note del “Reverie”.

    Sono troppo occupato a sognare ad occhi aperti per accorgermi di lui, sento solo il sedile affondare mentre si siede. Se lo avessi notato avrei messo la borsa sul sedile accanto al mio, ma ormai si è già seduto. Devo ammettere che il suo viso da così vicino è davvero sexy, ma non abbastanza da farmi dimenticare la sua reputazione. Aldo Ferretti è al vertice della piramide sociale della mia scuola, quarto anno, un metro e ottantacinque, fisico scolpito e due occhi scuri che sembrano leggerti dentro. È il palpito al cuore di ogni ragazza dell’istituto, di qualche ragazzo, e di uno o due docenti, compresa la vice preside. Ha tutto quello che si può desiderare, soldi, sesso ed è libero di fare ciò che vuole. L’unica ragione per cui io non sono sotto il suo incantesimo è perché ho visto quello che c’è sotto il suo aspetto esteriore. Fino ad ora non ho mai detto a nessuno, a parte Stella, la mia migliore amica, che l’anno scorso l’ho visto colpire la sua ex fidanzata nella camera oscura del corso di fotografia. Ho quasi lasciato cadere le pellicole, mentre cercavo di uscire dalla stanza prima che si accorgesse di me.

    Do un'altra rapida occhiata verso di lui, ha qualcosa di strano, ma non riesco a capire cosa. L’autobus inizia a muoversi. Dopo qualche minuto lo guardo ancora, fissa dritto davanti a se, sembra profondamente immerso nei suoi pensieri. Riappoggio la testa sul vetro freddo, facendo del mio meglio per ignorarlo. Fino a quando non sento la cuffia scivolare fuori dal mio orecchio, e la sua voce si scontra con la melodia che sto ascoltando.

    «Ehi, Fabio – ehm – come va il tuo progetto di storia?» Il suo tono sembra incerto, come se fosse nervoso.

    «Bene, l’ho finito l’altro ieri.» È strano parlare con lui, qualcosa non mi torna, non ci siamo mai frequentati oltre l’ora di storia.

    «Di cosa tratta?» Mi chiede.

    “Davvero vuole fare solo due chiacchere?” Non posso fare a meno di chiedermelo. «Inquisizione spagnola.» Cerco di rimettermi la cuffia mentre lo dico.

    «Sai mi serve aiuto con il mio progetto, è sulla colonizzazione in Sud America, posso venire da te domani?»

    La mia bocca deve essersi aperta o qualcosa del genere, perché questa è la prima volta che mi rivolge più di due parole oltre “fottiti frocio”, e ora vuole persino venire a casa mia?

    «No, non puoi Eric.» La mia voce viene fuori molto più ferma di quanto mi aspettassi.

    «Non fare lo stronzo, mi serve aiuto,» il modo in cui lo dice suona come se mi stesse implorando, è una sorpresa per me.

    Mi servono più di cinque minuti per spiegargli che non posso aiutarlo, gli suggerisco anche di rivolgersi al professor Ghiani, il nostro insegnante di storia, ma sembra che non mi ascolti. Sta tornando alla carica, ma siamo arrivati alla mia fermata e mi salvo.

    Ripercorro con la mente la giornata, cercando di capire cosa potrebbe averlo spinto a sedersi vicino a me in autobus. Il ricordo mi attraversa appena entro in cucina.

    «La sua auto era nel parcheggio,» mormoro aprendo il frigo.

    «Cosa tesoro?» La voce di mia madre mi fa sobbalzare, e la lattina di Coca che ho afferrato mi cade.

    «Cristo mamma, mi hai spaventato!» Quando guardo verso di lei noto che è molto elegante. Indossa un abito nero al ginocchio, una collana di brillanti e un braccialetto abbinato. Sembra appena uscita dal set di un film. «Sei bellissima,»

    Mi ringrazia prima di uscire dalla cucina. Sto cercando di ricordare per quale motivo potrebbe essersi vestita in quel modo. La seguo in sala da pranzo, dove i miei genitori sono davanti allo specchio. Mamma aggiusta la cravatta di papà mentre parla.

    «Fabio, purtroppo dobbiamo stare fuori fino a lunedì per la promozione di tuo padre.» Dal suo tono sembra preoccupata che io possa risentirmi visto che staranno via qualche giorno in più. «C’è una elenco sul frigo, con i numeri per qualsiasi emergenza. Chiamami subito se succede qualcosa.»

    Per tranquillizzarla un po’, le prometto di essere prudente e tutte le solite cose. Ma la tensione nel suo atteggiamento rimane. Quando corre di nuovo in cucina, papà si avvicina

    «Il nuovo sistema audio è collegato. Se non butti giù la casa puoi dare una festa.» Mi dice sottovoce, il suo tono è per metà serio e per metà scherzoso. Credo che sappia che non succederà mai, ho una vita sociale piuttosto… tranquilla, sono pietoso lo so.

    Quindici minuti dopo sono al freddo sotto il portico a salutare l’Audi di papà che sfreccia via. Quando non la vedo più rientro in casa, collego l’iPod al nuovo impianto centralizzato, e corro a cambiarmi per mettermi il pigiama.

    Sono nove e trenta di sera quando sento bussare all’ingresso. Mentre apro la porta sto cantando insieme alle casse una delle mie canzoni Indie preferite, effettivamente la maggior parte delle canzoni che ascolto sono Indie.

    È stato un errore. «Vorrei avere un ragazzo, vorrei avere un… Oh! Ehm… Aldo, ciao» Di tutte le canzoni che mi piace cantare doveva sentire proprio questa, maledizione! Probabilmente questo lunedì sarà sulla bocca di tutti.

    «Vedo che stai dando una festa,» dice. «Mi unisco anche io.» Si fa strada attraverso la porta e inizia a togliersi il cappotto prima che riesca a digli di no.

    «Ehm, Aldo i miei genitori non sono in casa, e non dovrei fare entrare nessuno.» Odio il modo in cui la mia voce diventa lamentosa quando sono nervoso.

    «Non devi dirglielo per forza, e inoltre sono qui per lavorare sul progetto di storia.» Sembra che non gli importi di quello che dico, mi sta facendo incazzare.

    «Cosa vuol dire che sei qui per lavorare sul progetto?» Purtroppo questa volta la mia voce non è ferma come speravo.

    «Beh, hai detto che domani non potevi aiutarmi, così ho pensato che potevamo farlo stasera. In questo modo vinciamo tutti!» Si lascia cadere sul divano mentre parla, è ha l’audacia di bere un sorso dalla mia Coca.

    «E io in come vincerei?» A questo punto so che non riuscirò a mandarlo via finché non avremo finito il suo progetto, ma ho ancora voglia di polemizzare un po’.

    «Passerai del tempo con me, dai mettiamoci a lavoro!» Mi guarda con un sorriso e due fossette talmente carini che mi avrebbero incantato se non sapessi quello che so.

    «Vado a prendere una lattina di Coca,» mi giro verso la cucina.

    «Ce n’è già una…»

    «Finiscila tu, …non voglio prendermi qualcosa.» Sussurrò fra me l’ultima parte ma sono sicuro che mi ha sentito.

    Due ore più tardi abbiamo concluso, soprattutto io, ma almeno è finita. Guardo verso di lui dal pavimento.

    «Bene Aldo, è finito,» faccio del mio meglio per accentuare la “stanchezza” nella mia voce. Tutto inutile.

    «Hai fretta di sbarazzarti di me?» Mentre mi dice questo si appoggia allo schienale del divano con le mani dietro la testa.

    «Beh, sono le undici e mezza…» almeno ci provo.

    «Andiamo, oggi puoi fare tardi,» dice. «Allora, di solito cosa fai per divertirti?» Mi osserva con uno sguardo strano.

    «Niente di speciale,» non voglio rispondere alla sua domanda.

    «Quindi porno,» dice con un mezzo sorriso davvero adorabile. « Ma com'è che non partecipi mai alle attività extra-scolastiche?» I suoi occhi color cioccolato sembrano trapassarmi.

    «Io… non ho il tempo, mi devo impegnare per non rimanere indietro.» È un affermazione assolutamente credibile, e domani andrò a cena con la fatina dei denti.

    «Oh, andiamo ma se sei un fottuto genio! Dai, dimmi perché non fai neanche una delle poche cose semi-divertenti che offre la scuola?» Continua a ridacchiare mentre parla.

    «Faccio le cose che mi piacciono, okay?» Sono di nuovo sulla difensiva.
    «Tipo?»

    «Beh, mi piace il corso di teatro.»

    «Si, ma intendevo cose meno accademiche.»

    «Aldo, non sono obbligato a giustificarmi con te! Il progetto è finito, ora puoi andartene.» Questa volta è più un ordine che un suggerimento.

    «Perché sei così arrabbiato?» C’è ancora un ché di divertito nella sua voce.

    Non riesco più a trattenermi e scatto contro di lui. «Forse non voglio avere niente a che fare con te e con quegli idioti dei tuoi amici! Perché è abbastanza ovvio che tu e i tuoi amici volete solo prendervi gioco di me!» Le parole volano dalla mia bocca come veleno.

    «Perché dici così?» Ancora quel maledetto tono disinvolto.

    Scuoto la testa e inizio a mettere da parte il suo progetto. «Ora devi andartene.»

    «No, voglio una risposta, perché né io né i miei amici ti stiamo facendo nulla.»

    Non ne posso più, sono davvero incazzato. «Ti sei dimenticato dell’ultimo anno? Perché ti assicuro che per me è stato un inferno! Questa farsa è durata anche troppo, adesso per favore esci da casa mia e vai a fare qualsiasi altra cosa tu faccia,» ma non riesco a trattenermi. «Magari puoi andare a picchiare Michela un’altra volta.»

    Il suo volto attraversa tre diverse emozioni nel giro di un secondo; il dolore, la rabbia, e poi il vuoto. Si alza, getta le sue cose nello zaino ed esce di casa senza dire una parola. Resto seduto sul pavimento, sconvolto per quello che è appena successo. Dopo quindici minuti vado verso l’impianto stereo, scollego il mio iPod, entro in cucina, afferro le sigarette di mio padre ed esco fuori di casa afferrando la giacca.

    Cammino verso il parco del quartiere e salgo sopra a uno dei tavoli di pietra. Guardo in alto nella fresca sera di ottobre, c’è la luna piena. Sembra una perla poggiata sul velluto nero. Accendo la sigaretta e aspiro. Lo faccio solo quando ho davvero bisogno di calmarmi, avrò fumato non più di cinque volte in tutta la mia vita. I pensieri che mi affollano la mente sono vaghi e incoerenti, come se ogni volta che cerco di completarne uno mi venisse strappato via. È in questo momento che sento una voce tranquilla e rilassante molto vicina.

    «Sai che ci sono modi migliori per suicidarti?»

    Balzo in piedi e mi allontano dal tavolo come un gatto. «Mi hai spaventato a morte!» La mia voce trema e il cuore mi batte così forte che credo di stare per svenire. Guardo il ragazzo seduto sul tavolo, a qualche centimetro da dove era la mia testa. È bello da morire, il colore dei suoi capelli somiglia a quello del cioccolato fondente, in netto contrasto con la pelle pallida. I suoi occhi brillano così tanto che sembrano aver catturato tutta la luce della luna.

    «Più di quanto credi,» dice sorridendo fra se. «Allora, che ci fa un ragazzo così carino in giro da solo nella notta buia e piena di terrori?»

    Arrossisco come una bambina mentre parla, e non so perché ho voglia di sedermi di nuovo accanto a lui. «È una lunga storia,» dico dolcemente avvicinandomi.

    Lui mi guarda. «Ho tutto il tempo del mondo.»

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