Gay Boys Reloaded

Votes taken by ancient lover91

  1. .
    CITAZIONE (LuckyBoy @ 8/7/2017, 17:48) 
    Stavolta primo tentativo a vuoto Michael Barret Watson gran figo ma è americano e in più ti aggiungo che il personaggio misterioso è più giovane (anche se di soli 7 anni) ... altro indizio oltre ai ruoli principeschi ha anche assunto il ruolo (al cinema) dell'immortale più famoso della letteratura inglese...

    Benjamin Barnes
  2. .
    CITAZIONE (LuckyBoy @ 3/7/2017, 19:10) 
    CITAZIONE (ancient lover91 @ 3/7/2017, 14:14) 
    Jamie Campbell Bower, il giovane Grindelwald :)

    Bravo ancient lover91 è proprio Jamie Campbell Bower (sei un patito di Harry Potter a quanto vedo)... per quanto riguarda gli altri indizi era uno dei Volturi nell'ultimo film della saga di Twilight, mentre la serie TV con lui protagonista era Camelot con il bel Jamie nel ruolo di Artù (...e che tra l'altro, scopava come un riccio ahahah :P )

    Ecco la foto integrale:



    Ancora Bravo ad ancient lover91 !!!

    Pronti per il prossimo questito?

    Troppo Gentile :D

    CITAZIONE (LuckyBoy @ 3/7/2017, 19:49) 
    ...Eccoci per il nuovo quesito, stavolta più facile non si può, almeno credo...

    Stavolta la foto è intera e senza tagli, ma molto piu giovane rispetto a come è conosciuto ora, come si evince dallo scatto ha un passato da modello, aggiungo che è un bel manzo di 37 anni dell'Alabama (USA) e che ora è un attore affermato.



    Coraggio buttatevi !!! ...e scometto che non serviranno aiuti stavolta ahahah

    Non ne sono sicurissimo, ma proverei con Channing Tatum
  3. .
    Jamie Campbell Bower, il giovane Grindelwald :)
  4. .

    ATTENZIONE
    CONTENUTO EROTICO E SESSUALE
    QUESTO RACCONTO NON E' ADATTO AD UN PUBBLICO MINORE DI 18 ANNI
    SE SEI MINORENNE TI INVITIAMO A LASCIARE IMMEDIATAMENTE QUESTA PAGINA



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    Capitolo diciannove: Vincitori e vinti

    “Cara mamma,
    Riuscirai ancora a ricordare com’ero da piccolo? Quando stavo sempre a casa ammalato e assente da scuola?
    Eri costretta ad assentarti da lavoro. Perché non avevamo nessuno ed eri troppo orgogliosa per chiedere aiuto a papà. Quante preoccupazioni ti devo aver dato e quanta paura avevo io! Come quella volta, quando rimasi a letto un mese per una brutta bronchite. Eppure, tu solevi dirmi di stare tranquillo, di non preoccuparmi, perché, secondo te: “Il tempo rimargina lentamente ogni male”.
    Per quanto sin da bambino mi faceva ridere come mischiassi alla rinfusa le parole, ti ho sempre ascoltato. Veramente.
    Ora ho di nuovo paura. Non credo ci sia abbastanza tempo.
    Pensare che d’ora in poi, sui tuoi occhi, e su quelli di papà, come in quelli di tutti gli altri, rimarranno impresse per sempre quelle immagini, è un dolore che non posso sopportare. Mi dispiace mamma per essere così egoista e per non poterti dare di più che queste parole scritte di getto. Scusami per tutte quelle volte che ti ho fatto stare male. Sarebbe inutile contarle. Vorrei che quando ti capiterà di pensare a me, tu possa ricordarmi per come ero da bambino, dimenticando tutto il resto.
    Addio mamma. Addio papà. E addio a tutte quelle persone che mi hanno voluto veramente bene e che non so riconoscere. Non siate tristi per me, perché ora sarò finalmente libero.”
    .

    Non c’era spazio per me negli ultimi pensieri di Nicolò.
    Sono egoista, lo ammetto.
    Solo, un semplice, vago, generico: “A tutte quelle persone che mi hanno voluto veramente bene e che non so riconoscere”.
    Ebbene sì, non aveva tutti i torti.
    Avevo avuto parecchio tempo e, più di qualche volta, fui a un passo dal dirglielo. Non lo aveva veramente capito quanto lo amassi? Perché era così.
    Quel lunedì mattina plumbeo, il vento sferzava prepotente sulle nostre fronti, mentre la pioggia scendeva lieve e incessante.
    “Cara mamma…”.
    Avevo avuto molto tempo per leggerla nella sua interezza, più e più volte, mentre aspettavo l’arrivo dei soccorsi. La rilessi, tanto da impararla quasi a memoria e fino a che non arrivarono anche i suoi genitori.
    Gli accolsi. Poi me ne andai.
    Di fronte a quelle persone, mi sentì una presenza di troppo. Come se, sì, va bene, finora si era giocato, c’eravamo divertiti. Però ora, le cosa si facevano serie; era il momento di farsi da parte, di lasciar fare ai grandi.
    Cosa mi era rimasto? Cos’ero io per Nicolò?
    Tutti i ragazzi che l’avevano visto l’ultima volta, erano lì. Alfredo non aprì né sabato, né domenica. Non ne giustificò il motivo. Eppure non venne. Probabilmente, non riteneva fosse il caso. E così anch’io.
    Nessuno dei due partecipò al funerale di Nicolò.
    Scelsi solo di esserci, in cimitero, a porgere un ultimo rispettoso saluto. Ma anche qui, mi tenni a distanza.
    A sinistra, a mio fianco, non sapevo perché, c’era Denise. Il fratello, invece, era in mezzo alla calca di parenti, amici e conoscenti, aspettando che la salma fosse inghiottita per sempre dalla terra.
    Mai più avrei rivisto il suo volto.
    Non mi sentivo pronto a dirgli addio. Non solo perché non avevo ancora realizzato quella fine, ma anche perché ritenevo di non sentirla abbastanza. Di non avere cognizione del dolore.
    Tutto quello che riuscivo a pensare era racchiuso in: “A tutte quelle persone che mi hanno voluto veramente bene e che non so riconoscere”.
    Solo questo mi hai lasciato?
    Ancora una volta, Denise mi offrì la protezione del suo ombrello.
    “Cosa voleva?” pensai. La pioggia era l’ultimo dei miei problemi. Il mio umore era perfettamente rappresentato da quella giornata: lieve e triste, come il cielo, ma rabbioso come quel vento che, in un via vai di folate, si prendeva gioco di noi. Avrei davvero preferito che Denise non fosse venuta. O meglio, non avrei voluto vedere nessuno.
    Chiedevo solo di essere lasciato in pace. Volevo solo rimanere con i miei ricordi. Volevo solo ricordarlo. Questo era per me onorarlo, piuttosto che assistere a quella messa in scena pietosa di fronte alla sua lapide. E lo feci, anche in quel momento: ne rimembravo i momenti migliori, fino a quelli peggiori, senza vergognarmi e tralasciare quelli più viscerali e abbietti. Più impressa di ogni altra, rimase l’immagine che ebbi quando mi scaraventai nella porta del bagno. Quel flash del suo corpo inerte e dondolante, legato alla trave portante davanti allo specchio. Non so con quale forza ero riuscito a sollevarmi e toglierlo da lì; appena entrato in bagno, scivolai per terra, inciampando sui piedi della sedia che aveva usato per legarsi al soffitto. Forse per l’adrenalina, forse per la disperazione, corsi dolorante e con mani e ginocchia in fiamme da basso verso la cucina; con il cuore in gola, raccattai un coltello. Infine, tornai su, salì sulla sedia e m’issai i piedi di quel corpo ridicolmente penzolante sulle spalle. Era ancora tiepido quando infine lo appoggiai delicatamente al suolo sul tappeto, come se non volessi fargli male. Avevo capito sin da subito. Non ci sperai un attimo.
    Queste scene, mi avrebbero accompagnato ancora per molte notti prima di assopirmi. Ne ero certo. Come in lontananza, ai margini di questa figura imponente che galleggiava a mezz’aria nel bagno, i ricordi movimentati dei suoi sguardi, i suoi sorrisi, e alcune sue parole, magari futili, ma che mi rimasero particolarmente impresse. Come un tesoro prezioso, non le avrei condivise con nessuno. Perché era tutto ciò che mi rimaneva di noi.
    Mi accorsi di sognare a occhi aperti. Quando rinsavì, la maggior parte delle persone si era già dispersa silenziosamente. Denise mi precedeva di pochi passi; stava parlando con Daniel. Gli avrebbe detto di andare avanti da solo, che voleva stare ancora un po’ con me. Avrei preferito se fossero andati via entrambi. Ero più grato a Federica, che non si era presentata. Dopotutto, né lei, né Denise, conoscevano Nicolò, né l’avevano mai visto. La cosa buffa era proprio quella: Denise non sospettava ancora nulla. A suo modo di vedere, Nicolò era solo un amico speciale.
    Che stupida.
    “Nicolò”. Una voce che riconobbi subito mi chiamò da dietro. Mi voltai lentamente.
    “Ciao” fa lui.
    “Sei venuto…” commentai senza salutarlo.
    “Potevi anche startene a casa” aggiunsi stizzito.
    Flavio abbassò lo sguardo a terra, avvolto in un elegante giaccone nero. Le mani nelle ampie tasche.
    Era solo.
    “Volevo esserci… E vederti”.
    Sentì la fronte pulsare.
    “Non era necessario. Non serviva che facessi tutto questo viaggio” risposi digrignando i denti e trattenendo a stento una rabbia che covavo da qualche tempo.
    “Sei arrivato tardi” conclusi malizioso.
    Vidi gli occhi di Flavio, che fino ad allora mi avevano fissato in un mix di imbarazzo e pentimento, mutare di forma.
    “Pensi che mi faccia piacere?” disse cautamente, controllando una voce tradita dall’ espressione. Aveva ritrovato colore e sdegno.
    “Non potevo fare altrimenti, dovresti saperlo. Nicolò avrebbe capito…”. Non fece in tempo a dire altro che, in preda a un raptus di rabbia, lo spinsi talmente forte che questi cadde all’indietro scivolando a terra in una scia di fango, sfiorando pericolosamente con la testa l’angolo basso di una lapide.
    Ci mancava solo questo.
    “Nicolò!” urlò sconcertata Denise, correndo ad aiutare Flavio a rimettersi in piedi.
    Questi, si riprese, tenendosi la testa con la mano, incredulo e imbrattato completamente di fango sui jeans, come sulla schiena.
    “Andiamo via! Non voglio parlare con lui!” sbottai rivolto a Denise, mentre la gente intorno mi guardava sbigottita, inveendomi contro per i miei modi in un posto sacro come quello.
    Senza dire nulla, si allontanò da Flavio e cominciò a seguirmi in direzione dell’uscita. Questi invece, rimase fermo impalato.
    “Che cosa ti è preso?!” esclamò lei con lo stesso vigore di prima.
    Non risposi e cercai la mia auto nel parcheggio. Denise fece per prendere le chiavi; appena me ne accorsi, le ritrassi di scatto e in malo modo.
    “Guido io” dissi freddamente.
    “Forse è meglio…” sussurrò più spaventata che offesa per le mie cattive maniere. Prima che potesse terminare, avevo già aperto la portiera del guidatore e mi ero infilato dentro.
    Silente, Denise circumnavigò la mia auto frettolosamente, per poi sedersi sul posto a fianco, come se pensasse che fossi così fuori di me da partire in fretta e furia, lasciandola indietro. E forse, non era così sbagliato.
    “Si può sapere che hai?” domandò più tardi facendosi coraggio. Eravamo ormai partiti da un paio di minuti.
    Ancora una volta la ignorai, guardando lo specchietto retrovisore. Sapevo che, qualsiasi cosa gli avessi detto, sarebbe stata una cosa spregevole. In quel momento, avrei attaccato briga con chiunque. Lo so, ero stupido. Sapevo che era solo un modo per compensare il mio dolore. Ma Denise, proprio Denise… Non era una persona che doveva essere lì in quel momento.
    “Dove andiamo? Da te o da me?” chiese, rinunciando a indagare di più sul mio stato d’animo e ignorando il mio volto contrito in un espressione storta.
    “Ti sto accompagnando a casa” risposi rudemente, cercando di fargli pesare che, in un momento come quello, avrei anche dovuto occuparmi dei suoi comodi. In realtà, non era mia intenzione mancarle di rispetto. Era l’istinto a portarmi ad essere più scortese possibile.
    “Perché? Andiamo da te… Voglio stare un po’ insieme…” sussurrò.
    “Perché?!” sbottai.
    “Ma… Niente… Pensavo di farti un po’ di compagnia…” disse dolcemente, ma con l’unico effetto di far si che mi morsi le labbra per non inveirle ancora contro. Sentivo un ribrezzo salire dalle viscere.
    “So che era un tuo caro amico…”.
    “Tu non sai niente!” esclamai ancora una volta, infastidito di quelle parole su Nicolò. Mi dispiaceva per Denise; sapevo nel profondo che lo faceva per me, così come ne apprezzavo il gesto. O almeno l’avrei fatto. Ma ora, in quello stato pietoso nel quale mi sentivo, non avevo da dispensare né buone parole, né sentimenti gentili.
    “No, hai ragione. Non lo conoscevo…” si scusò lei.
    “Denise…” dissi strofinandomi la fronte con la mano sinistra, mentre con la destra tenevo il volante.
    “Perché sei qui?”.
    Denise arrossì.
    “Come? Te l’ho detto…” rispose debolmente.
    “Denise, tu non sei… Tu non sei più la mia fidanzata. Non me lo devi” feci, spremendomi con le mie ultime energie residue per non esplodere di rabbia.
    “Non importa… Di quello che è successo tra di noi ne parleremo più avanti. Ora…” cominciò a dire rinfrancata.
    A metà della frase, quando si riferì al nostro precedente rapporto, alcune immagini emersero dall’oceano di dolore qual era la mia mente; su tutte, quelle della sera in cui io e Daniel abusammo come animali di lei. Eppure, dopo quello, Denise era ancora qui. Non la ritenni poca cosa come in quel momento. Non riflettei quando pensai che Denise, in un certo senso, e in tutta la sua ingenuità, si stesse paragonando a Nicolò. Con quale coraggio?
    “Non c’è niente da dire su di noi perché non c’è niente!” la interruppi, sbraitando come un folle.
    Denise rimase senza parole, guardandomi tristemente sconvolta.
    “Denise. Che cosa ci fai qui?” ripetei guardando avanti e con lo stesso tono scorbutico con cui gli posi la prima domanda. Denise era finita in uno spaventoso loop.
    “Nicolò…” riuscì solo a dire, sempre più a disagio.
    “Perché sei qui? Cosa fai qui?” insistetti, questa volta sibilando le parole con freddezza.
    “Ti rendi contro di quello che è successo tra noi? Non è possibile che tu sia ancora qui” mi spiegai.
    Denise, invece di dar peso alla freddezza dei miei modi, evidentemente pensò al senso compiuto della frase perché rispose:
    “Esatto, sono ancora qui. Come hai detto tu, tra noi c’è stato qualcosa e c’è ancora qualcosa” rispose dolcemente, con la voce spezzata dall’emozione e dalla tensione, palesando un disagio dovuto alle condizioni estreme in cui si era giunti.
    Quando sentì le sue conclusioni, sorrisi malignamente divertito.
    Denise credeva davvero ci fosse ancora qualcosa.
    Davvero si stava paragonando a Nicolò? Questo pensai di riflesso, sempre più fuori di me.
    Continuando a guidare con una tranquillità alienante, guardai lo specchietto retrovisore e dissi:
    “Denise… Possibile tu non l’abbia capito? Allora te lo dico. Sai chi era Nicolò? Nicolò era il mio ragazzo” dissi osservando la reazione sul suo volto.
    Denise ora mi fissava inebetita a bocca aperta, contratta in un espressione funesta. Sentivo che l’unico motivo per cui si trattenesse era perché, a differenza mia, capiva la situazione in cui ci trovavamo, ovvero quella di un lutto importante.
    Sadico e senza pudore, ripresi a guardare avanti: “Quando ci siamo incontrati casualmente in quel bar, io e Nicolò stavamo già insieme. Ed è stato così anche dopo… E non pensare che ci fosse qualche tipo di crisi tra me e lui, perché non è così. Devo anche dirti che, effettivamente, anche lui è rimasto ignaro di tutto questo. Non l’ha mai saputo. Comunque, non ho mai pensato un attimo di preferire te a lui”.
    Di fronte a tutta quell’amara sincerità improvvisa quanto ingiustificata, Denise si limitò a fissare avanti lo specchietto. Avevo parlato con una soprannaturale spontaneità, genuina quanto stupida e imprudente. Rischiavo un linciaggio particolarmente pericoloso, viste le condizioni di guida e il contesto.
    “E non è tutto. Si può dire che abbia approfittato di te dall’inizio. Per esempio, quando ho visto tuo fratello su quella foto. E’ stato allora che ho deciso di portarlo a lavorare con me al bordello. Ho dovuto….”.
    Ero lontano dal terminare il mio discorso quando Denise mi strinse l’avambraccio, penetrando con le unghie nella carne. Trasalì sorpreso e dolorante, quasi spaventato, finalmente vivo.
    Ma in men che non si dica Denise disse:
    “Ferma la macchina. Fammi scendere”. Ora anche la sua voce era gelida, ma di un freddo spaventoso. Ora era lei che si tratteneva a stento.
    Senza farmelo ripetere due volte, cercai un posto e rallentai. Quindi, appena fummo fermi, Denise aprì la portiera e uscì, sbattendola dietro di sé in silenzio. Sapevo che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei incontrata, ma, invece di seguire con lo sguardo che scomparisse davanti ame, continuai meccanicamente ad adocchiare lo specchietto per guardare dietro, pronto per ripartire.
    L’ultima cosa che ricordo di lei, sono i passi veloci dei suoi stivali, sempre più leggeri in lontananza. E quando gli passai nuovamente vicino con l’auto, continuai a ignorarla.

    -

    Non erano passati che cinque minuti, quando presi il telefono e aprì la rubrica.
    “Pronto” sentì dal ricevitore una voce roca.
    “Fermiamoci qui” risposi guardando il tizio nell’auto alle mie spalle parlare al cellulare.
    Presi posto tra una fila di auto, quindi scesi ed entrai nell’America Graffiti, un locale stile America anni ‘50. Infine, presi posto su un tavolo e rimasi in attesa. Mi guardai attorno: i colori vivi del posto, tutti sul rosso e rosa shocking, contrastavano il triste grigiore del cielo e dei palazzi circostanti, mirabili dalle ampie vetrate. Su di me ebbero un effetto rilassante.
    Quando arrivò, Flavio prese posto sulla panchina imbottita di fronte a me. Era ancora ampiamente incrostato di terra. Anche se faceva caldo all’interno del locale, decise comunque di non togliersi il giaccone sciupato.
    “Finalmente hai deciso di parlarmi” esordì.
    “Non mi avresti lasciato in pace sennò” risposi.
    Flavio sorrise, ma non c’era in me traccia di ironia.

    -

    Dopo aver ordinato un caffè, riprendemmo sulla falsa riga precedente.
    Aspettai un suo intervento e lo studiai attentamente: era passata qualche settimana dall’ultima volta che l’avevo visto e non era comprensibilmente cambiato un granché; solo i capelli erano più corti e ordinati. Eppure, era come essere di fronte a uno sconosciuto: anche i suoi modi e sguardi parevano diversi, più seri e posati, mentre i suoi occhi sembravano di un blu più intenso, profondi come l’oceano.
    “Dov’è Marco?”. Alla fine decisi di prendere parola. Non ero interessato, ma mi venne spontaneo chiederlo.
    “Dove dovrebbe stare. A scuola” rispose congiungendo le mani sopra il tavolo.
    “Mi dispiace per i tuoi vestiti” mentì.
    “Niente che un risciacquo non possa sistemare” commentò sorridendo timidamente. Sorriso che non fu ricambiato.
    Se voleva semplicemente chiacchierare come nulla fosse, non aveva scelto il momento giusto. Le unghie di Denise e il dolore intenso che aveva provocato, mi svegliarono e, allo stesso tempo, mi tolsero ogni energia. Mi sentivo stanco, quasi sazio. Ma sentivo che proprio quella stanchezza mi avrebbe aiutato ad essere schietto e sincero, evitando inoltre altre scenate isteriche.
    Flavio rimase in silenzio per qualche istante, fino a che arrivarono i nostri caffè.
    “Ora che farai?” domandò a bruciapelo.
    Alzai lo sguardo dalla tazza, sinceramente sorpreso da tanta sfacciatezza.
    “Mi dispiace. Hai perso l’esclusiva”.
    Flavio chiuse gli occhi, come se l’aspettasse. Poi parlò con un tono borioso che m’infastidì:
    “Spero solo tu non voglia fare qualcosa per il quale possa pentirti”.
    “Ad esempio?” domandai sarcastico.
    “Non lo so, dimmelo tu” disse bevendo un sorso dalla tazzina fumante.
    “Così poi potrai tradirmi di nuovo?” dissi cogliendo la palla al balzo.
    Flavio rimase un attimo immobile, evidentemente colpito nel segno.
    “Quindi è questo che pensi? Che ti ho tradito?” chiese con un timbro di voce particolarmente basso.
    “Sì, esatto”.
    Flavio sospirò: “Anche Nicolò la pensava così?”.
    Metteva di mezzo ancora Nicolò. Che mossa subdola, pensai.
    Avrei voluto mentire.
    “Lui pensava che avessi le tue ragioni…” risposi.
    “Ed è così… Perché non lo capisci?”.
    “Perché avresti potuto proteggere voi e anche noi! Perché saremmo potuti essere quattro teste anziché due!” dissi tutto di un fiato, attento a non alzare troppo la voce.
    Ancora una volta, colpì nel segno. Flavio guardò sotto di sé, poi disse:
    “Hai ragione. Avrei potuto agire diversamente. E in questo ho sbagliato” ammise.
    “Ma non vi ho tradito” aggiunse guardandomi con straordinaria convinzione.
    “Non l’avrei mai fatto. Ho semplicemente dato la priorità a…” continuò ora che s’era accorto lo ascoltassi con maggior attenzione.
    “Hai semplicemente agito da codardo” commentai freddamente.
    “Me ne assumo le responsabilità. Se pensi che ho sbagliato in questo, e lo pensi, fai pure. Ma sono qui per trovare una soluzione”.
    “Una soluzione da cosa?”.
    “Da quello che succederà”.
    “Che cosa succederà?” continuai a cantilenare.
    “Nicolò, non fare qualcosa di stupido” disse Flavio guardandomi dritto negli occhi. Mi parve particolarmente sincero.
    “So che ti da fastidio, ma Nicolò non lo vorrebbe”.
    “E a me che importa di quello che vorrebbe lui? Per lui io non ero nessuno” risposi d’improvviso. Le parole mi uscirono d’impulso.
    Flavio mi guardò qualche secondo stupefatto.
    “Che cosa dici… Nicolò… Era cotto di te”.
    “Appunto, cotto…” commentai. Mi stavo sfogando senza accorgermene, piagnucolando come un bambino a cui era caduto il gelato.
    “Che cosa vuoi dire?” chiese lui alzando le sopracciglia.
    “Nella sua lettera… Non c’era alcun riferimento a me” risposi scavando su un buco del tavolo di legno con l’indice.
    “Era rivolto a sua mamma. A suo padre… E basta…” continuai cercando di non risultare troppo piagnucoloso.
    “Hai capito il momento, no? E’ normale che abbia pensato alle persone che l’hanno cresciuto…” disse con quel tono altezzoso che ben ricordavo tipico di lui.
    Non dissi però nulla. Sentivo gli occhi bruciare.
    Flavio stette in silenzio, in riflessione.
    “Sai cosa penso? Che l’abbia fatto apposta a non scrivere nulla di te” concluse.
    Lo guardai a bocca aperta. Non sapevo se essere arrabbiato o no.
    “Sì, pensaci. Potrebbe averlo fatto per proteggerti. Per non metterti in mezzo sull’indagine che si aprirà”.
    “L’indagine…” mormorai debolmente, con la testa fra le nuvole.
    “Probabilmente partirà un indagine per risalire all’identità di chi ha divulgato i video, anche se non sarà facile risalire ad Alfredo” proseguì lui che non si era reso conto che non lo stessi più ascoltando.
    Nicolò l’avrebbe fatto per me? Ci pensai. Era possibile. Sì, poteva essere così.
    Nel momento più nero della sua esistenza, aveva prima deciso di allontanarmi mentendomi, con la scusa di soddisfare una piccola voglia. Poi aveva scritto una lettera dove neppure mi aveva citato in una singola parola. Eppure mi sarebbe bastato rientrare anche in una sola cancellatura di quella calligrafia così dolce e aggraziata, quasi femminea.
    Invece niente.
    Ed ora mi si diceva che Nicolò non mi avesse dimenticato neppure nel suo ultimo istante.
    “Pensaci bene Nicolò” mi dicevo immaginando la voce di Flavio, mentre questi era preso a discendere le sue teorie sull’indagine.
    Ogni segnale induceva a pensare che non poteva essere solo una cotta come le altre. Com’era possibile che mi fossi fossilizzato così tanto? Bastava così poco per capire che non poteva essere così: quelle scenate fuori dal bordello, l’abbandono dello stesso, il grande rifiuto ad Alfredo. E dopo quello, avevo deciso che fosse solo una lettera a determinare tutto? Come se a queste decisioni, fossero più rilevanti le piccole liti o altri momenti di comprensibile tensione e nervosismo? Che, per questi momenti, Nicolò avesse ritenuto la nostra relazione nient’altro che un piccolo vezzo?
    Che stupido ero stato, pensai arrabbiandomi con me stesso.
    “Quindi questo è quello che penso”. Flavio stava ancora parlando.
    Lo guardai come se fossi giunto lì solo ora.
    “Come…” borbottai spaesato.
    “Che non riusciranno a risalire al bordello”.
    “Ah ok…” commentai velocemente, anche se ora che ci pensavo non ero così d’accordo.
    “Dici di no?” chiesi sincero.
    Flavio mi guardò infastidito. Sicuramente era già passato su quel punto. Distolsi lo sguardo arrossendo, fingendo di non farci caso.
    “Ti dico di no! L’ambiente è troppo generico. La stanza è la stessa. Potrebbero risalire alle persone, ma conoscendo Alfredo avrà messo in contatto tutti quelli che poteva. E chi rimane non sono che aghi nel pagliaio. Ed è poco dire che riconoscerli sarebbe quasi impossibile”.
    “Quindi dici che non accadrà nulla…” commentai. Ero deluso.
    Flavio interpretò il mio disappunto.
    “E’ così… Me ne sono accorto anch’io. Vincono sempre loro…”.
    Lo guardai meravigliato; non solo per una visione così negativa, ma perché stava tralasciando qualcosa.
    “Che cosa…” cominciai prima di essere interrotto subito.
    “So cosa avete dovuto fare. Alfredo me l’ha detto”.
    “Alfredo?!” dissi sbalordito. Cominciai a sudare freddo, preoccupato. Che cosa voleva dire? Che rapporto intercorreva adesso fra quei due?
    “Anch’io non sono riuscito… Ho dovuto fare cose per cui mi pentirò per sempre…” disse sottovoce, palesando una certa dose di disagio.
    “Di cosa parli?” domandai preoccupato.
    “Nima”.
    Rimasi in attesa.
    “Ormai lo conosci”.
    “Ma Teodoro mi ha detto…”;
    “Cosa?”;
    “Che Nima è andato da Alfredo. Così ha detto lui”.
    “Alfredo?”;
    “Sì”.
    Flavio rispose con uno sguardo di sufficienza.
    “Alfredo mi ha detto che hai cambiato città, che saresti scomparso in cambio della protezione di Marco”.
    “Sì è vero, ma non è tutto. Alfredo mi ha obbligato a continuare a lavorare per lui. Solo in maniera un po’ diversa da prima…” affermò Flavio.
    Rimasi a guardarlo senza parole.
    “Se non l’avessi fatto… Non so cosa sarebbe successo… O forse lo so…”.
    “E quindi…” borbottai debolmente.
    “Questa è la strada Nicolò!” alzò la voce d’improvviso con un tono sinistramente entusiasta. Ma ormai lo capivo anch’io che stesse recitando, nascondendo la mia stessa disperazione.
    “Se mi devo sporcare le mani, lo farò!” concluse, quasi per autoconvincersi. Non ero d’accordo; anch’io un tempo la pensavo così, ma ora sapevo si sbagliasse. Cosa aveva portato comportarsi bene e seguire le sue regole?
    “So che è brutto dirlo. Ma non tutti i mali vengono per nuocere…” riprese ora con un tono più basso e delicato.
    Dove voleva andare a parare? Possibile che si permettesse tanta impudenza?
    Flavio prese il telefono dalla tasca, toccò lo screen alcune volte, poi me lo passò.
    “Guarda. Questa e quella dopo”.
    Presi il cellulare. Volevamo mostrarmi due foto.
    Sulla prima si vedeva un ragazzino in primo piano che fumava. Era di un incantevole bellezza: esprimeva uno sguardo ricercato, boccheggiando con il fumo sulla camera. Vestiva hip hop e portava un dilatatore all’orecchio sinistro. Eppure, di fronte a un atteggiamento tanto irriverente, quegli occhi color pece, i capelli corti morissimi, le labbra carnose scarlatte, la pelle bronzea e dei lineamenti del suo viso scavato, non poterono far si che più di essere infastidito, fui affascinato da tale contrapposizione. Sulla seconda, un ragazzino altrettanto carino, dai capelli neri e crespi, il viso dolce e simpatico, labbra sottili, rovinato dall’acne, e un bel sorriso. Vestiva semplice e appariva quasi ignaro del suo fascino. Rispetto al primo, sembrava decisamente molto più alla mano e genuino. Entrambi apparivano particolarmente piccoli e di bassa statura, non molto più alti del metro e settanta. Mi piacevano entrambi.
    “Il primo è Kristian. Tredici anni, rumeno. Vive a Quarto d’Altino. Il secondo è Flavio… Sì il mio omonimo, non ne hai solo tu. Tredici anni, trasferitosi da Salerno, ovviamente con i genitori. Questi sono i prossimi…” fa lui schematico mentre osservo le foto.
    Lo guardo smarrito.
    “Voglio che mi aiuti”. I suoi occhi splendevano di una luce sinistra.

    -

    Ci trovavamo all’interno del suo abitacolo, seduti sui sedili posteriori. Con me e Flavio, sopra di noi, erano seduti rispettivamente Kristian e Flavio. Sia noi, sia loro, liberi di ogni indumento. Tutto il resto era solo lo sfondo irriconoscibile di una strada qualunque e indistinguibile.
    Le terga di Kristian scaldavano le mie zone erogene, mentre questi era girato di schiena, appoggiato al mio petto.
    Trattenevo quel corpo leggero nel mio abbraccio; Kristian non era né muscoloso, né segnato nel fisico. Ma il suo corpo era di una delicata morbidezza dalle forme magre e sode, incastonate perfettamente. Inspirai profondamente il suo profumo dal suo collo; l’odore potente di tabacco proveniente dal suo respiro, rese il contrasto dell’odore pungente della pelle ancora più vivido e inebriante.
    Come nulla fosse, Kristian allungò questo, lasciando che lo succhiassi.
    “Mi chiedo quanto sia un vostro lavoro e quanto invece vi piaccia” commentò altezzoso, con una voce straordinariamente forte e profonda, senza flessioni straniere.
    “E’ il mio compito…” sussurrai, tradito da un particolare trasporto e continuando ad accarezzare il suo petto e l’addome. Le mie gambe erano intrecciate con le sue.
    “Pappone…” sibilò, ma non smise di farsi avere.
    Gli diedi un pesante strattone; questi sobbalzò ma non disse nulla. In seguito, leccai per lungo il mio dito medio, passandolo sotto il mio addome.
    Kristian, come se non aspettasse all’altro, si alzò quanto bastava. Lasciai, senza particolare fatica, il dito penetrare all’interno del suo retto. Poi, al caldo, ripresi a muovermi.
    A mio fianco, Flavio si stava già dando maggiormente da fare, avvinghiato e abbracciato al suo piccolo omonimo mediterraneo. Il corpo di questi, magro e aggraziato, si muoveva inerte alle battute di Flavio al suo interno, ma sul suo viso c’era lo stesso sorriso che vidi in foto. Il piccolo Flavio gemeva sommessamente; dagli stessi singhiozzi, si percepiva un accento meridionale.
    Perché Kristian non poteva essere disponibile e mansueto come lui? Pensai osservandoli dall’alto verso il basso, abbracciati e ardenti. Mi soffermai sulle gambe statuarie di Flavio, leggere e muscolose. Mi erano sempre piaciute quelle gambe da ballerino.
    E, senza che me ne accorgessi, avevo sostituito il dito con altro. Ora Kristian gemeva sonoramente con me; le sue gambe aderenti nella loro interezza alle mie, dall’inguine fino alle caviglie. E l’ultima immagine che mi rimase fu quella del mio viso in terza persona contratto in una smorfia di perverso piacere.
    Trasalì.
    Era questo che mi aspettava?

    Mi alzai dalla sedia, guardandolo negli occhi, ancora preso a sorseggiare il caffè.
    Non c’era più rabbia nei suoi confronti; lo avevo accettato, ma non potevo essere come lui. Gli restituì il telefono.
    “No” dissi.
    “Perché?” mi domandò istintivamente, stupito da tanta risolutezza.
    Non risposi.
    Mi stavo già abbottonando la giacca, pronto ad andare via, ma Flavio insistette.
    “Questo è l’unico modo. D’ora in avanti non avrai più l’assillo del bordello… Stavolta staremo insieme... Ci guarderemo le spalle... E faremo quello che dobbiamo fare…”.
    E alla fine cosa saremmo diventati? I nuovi Alessandro e Teodoro? O, al meglio, Jack?
    Il mio sentimento nei suoi confronti non mutò. Flavio era un ragazzo intelligente; se si permetteva di offrirsi con tanta imprudenza sporcando l’immagine di Nicolò, non era certo per mancanza di rispetto.
    “Capisco perché lo fai. Ma io non posso” dissi lasciando sul tavolo due euro.
    “Per…” cominciò a dire ma lo interruppi imperterrito.
    “Perché non ho più nessuno”.
    Flavio era un ragazzo intelligente sì, ma come la maggior parte delle persone, non era altro che un debole. Non era la prima volta che aveva scelto la via più semplice, piuttosto che quella più virtuosa. E ormai sapevo che non si poteva contare su di lui.
    “Ti ripeto che…”
    “Ti sbagli. E lo sai” mi limitai ad aggiungere con sufficienza.
    Mi guardò con uno sguardo pieno d’offesa. Non sopportava essere risolto così sbrigativamente.
    “E cosa dovrei fare?” domandò cercando di nascondere il rancore.
    “Non so cosa tu voglia fare, ma ti consiglio di fermarti subito” risposi con rinnovata freddezza.
    “Oh certo…” riuscì solo a dire, incerto su come proseguire. Ma prima che potesse dire qualcosa di cui si sarebbe pentito, lo levai dall’impaccio. Perché me n’ero già andato.
    Avevo già deciso la mia strada.

    -

    Denise e Flavio, a modo loro, mi avevano offerto due scelte. Ma non era né niente di nuovo, né qualcosa che potevo considerare.
    La prima non faceva che sostituite un rapporto con un altro. Come se fossi pronto, o come se potessi accettare attivamente di infilarmi il quel casino che avevo io stesso ampiamente contribuito a mettere in piedi.
    Il secondo mi proponeva niente di meno che diventare un tirapiedi di Alfredo. Con ogni probabilità, questi avrebbe ampiamente acconsentito; in questo modo, non sarei mai più stato abusato, anzi, avrei cominciato a trarre ogni vantaggio da quel posto. Come se, dopo tutto quello che era successo, questa potesse essere una degna consolazione.
    L’incontro con Flavio non fu comunque inutile. Una volta per tutte, mi schiarì le idee. Prima di tutto su Nicolò. Rimanevo infelice, ma ora consideravo con maggior forza che per questi non fui un peso inutile.
    Ora, però, l’unica cosa che desideravo era avere giustizia. E avevo una vaga idea su come ottenerla.

    -

    Il giorno seguente, quando Teodoro mi strinse nel suo abbraccio avvolgente, per la prima volta apprezzai il calore del suo gesto.
    Come qualche giorno or sono, mi trovavo seduto nel polveroso salotto di quella casa desueta a tracannare liquori invecchiati dalla cantinetta di uno degli uomini più fidati di Alfredo.
    “Non so cosa dire… Non posso neppure immaginare quello che stai passando…” disse Teodoro seduto di fronte a me, recitando con discreto impegno la sua parte.
    “Quello che è successo… Una tragedia insensata… Una vita spezzata così giovane…”.
    Aspettai rispettosamente che terminasse con la sua inutile retorica.
    “Come ti senti?” chiese.
    Scrollai le spalle e ripresi a bere, assaporando il solito whisky invecchiato di cui ormai mi ero fatto la bocca.
    “So che è brutto sentirselo dire… Ma sai che adesso… Con questo sacrificio… Posso…”.
    “Voglio che mi aiuti ad avere giustizia!” lo interruppi finalmente.
    Teodoro rimase interdetto con la bocca comicamente semiaperta.
    “Approfittiamo della situazione per venirne fuori. Lo sai anche te che ora è possibile. Andiamo dalla polizia e testimoniamo. Ce la caveremo…”
    Alla parola “polizia”, Teodoro ebbe un fremito.
    “Nicolò… Non essere impulsivo…” si limitò a dire ridacchiando e fingendo di non avermi preso sul serio.
    “Dico veramente. Dovremmo, anzi, dobbiamo farlo!” insistetti con maggior polso.
    Teodoro mi fissò inespressivo.
    “Teo ti prego… Non possiamo continuare così…”.
    “Così come?”.
    “A rischiare per lui”.
    “Rischiare?” ripeté sorridendo.
    “Non rischiamo nulla… Io non rischio nulla…”.
    “Rischieremo sempre finché facciamo questo. Non è detto che ce la caveremo per sempre… Sai che è così…”.
    Teodoro evitava di incrociare il mio sguardo.
    “Non possiamo fidarci” disse. Sapevo cosa voleva dire.
    “Sì che possiamo. L’ispettore Meggi… Lui è mio amico. E’ una persona a cui affiderei la mia vita”.
    “Solo uno… Cosa può fare…”.
    “Non sarà da solo… Avrà delle persone fidate… Ci saremo noi e… E tutti i ragazzi del bordello! Ormai non lavoreranno più volentieri dopo quello che è accaduto… Teo… Togliamoci fuori… Tagliamoli le gambe… Solo tu puoi prendere le redini… Aiutami… Non ce la faccio più…” lo supplicai senza vergogna.
    Sentivo che non fosse indifferente alle mie parole. Quindi, decisi di essere ancora più imprudente, come se già non stessi rischiando abbastanza.
    Era come trovarsi nella bocca del leone, sperando che questi, invece di squartarmi, mi leccasse affettuosamente.
    “Questa sera confesso. Che tu ci sia o no” affermai con tutto il coraggio che avevo in corpo.
    Teodoro mi fulminò con lo sguardo.
    “Anche se spero che tu sia con come…” aggiunsi con molta meno convinzione e foga.
    Questi lasciò il bicchiere sul tavolino, poi prese a guardare in basso massaggiandosi le tempie e i radi capelli.
    Dovevo convincerlo, ad ogni costo.
    Giocai dunque la mia ultima carta.
    Trattenni il respiro e mi alzai, quindi mi camminai lentamente verso di lui fino ad appoggiare la mano sulla spalla destra. Questi alzò meccanicamente il busto all’indietro per guardarmi in viso. Fu abbastanza per potermi sedere sulle sue gambe.
    Non volevo esagerare, né apparire volgare, ma non trovai altra soluzione.
    “Che fai…” disse istintivamente.
    Ero rosso in viso e senza respiro.
    “Ora che non c’è più… Possiamo stare insieme… Sempre…”.
    Teodoro rimase a bocca aperta. Ne uscì solo un grugnito.
    “Cosa ne dici?” domandai sottovoce aspirando il suo bruciante alito.
    “S-sei sicuro?”. Non avevo mai visto Teodoro così a disagio.
    “Sì…”.
    “Non lo fai solo per questo?” domandò lui. Nei suoi occhi, che faticavo a sostenere, traspariva una sconosciuta trasparenza.
    Ora sentivo di potermi fidare.
    “Siamo sempre andati d’accordo… Noi due… Ci ho pensato… E… Ora che… Ora non mi sentirò più pronto… Tu sei l’unico con cui potrei…” recitai vomitando tutto il romanticismo di cui ero capace.
    Non era falso che temevo di non essere più in grado di sostenere un rapporto autentico dopo quello di Nicolò, ma Teodoro non era di certo escluso dalla lista. Eppure, ero davvero pronto a sacrificarmi, proprio perché facevo sul serio. La mia non fu mai retorica: io amavo Nicolò e per lui, solo per avere giustizia per lui, avrei accettato Teodoro.
    Per sempre.
    Teodoro ghignò compiacente.
    “Se è per te… Lo farò!”.

    -

    Fui scaraventato sul letto. Non mi rimaneva addosso che la canottiera e gli slip.
    Come nulla fosse, piegai sensualmente le gambe, creando con il mio movimento delle ondeggianti increspature sulle fresche lenzuola celesti. Come se non bastasse, lo provocai infilando la punta del mio indice in bocca, fissandolo con sguardo languido.
    Ero intenzionato a dargli tutto ciò che desiderava; per la giustizia, gli avrei fatto trascorrere la migliore giornata della sua vita.
    Teodoro, a bordo del letto, mi fissava in un espressione contrita, come se trattenesse un furore animalesco. Mi prese per le caviglie, portandomi verso di sé.
    Trascinato di forza, risi ansimante. Ero carico e pronto ad entrare nella parte, seppure non mi rendevo ancora conto fino in fondo a cosa avessi deciso di andare incontro.
    Nicolò era morto e quattro giorni dopo mi ero messo insieme a Teodoro; avrei testimoniato con lui, conducendo Alfredo a un lungo processo che sarebbe terminato probabilmente con la sua reclusione. In cambio di questo trionfo, avrei trascorso tutti i miei anni o, vista la differenza d’età e nelle più rosee previsioni, i miei migliori anni insieme a Teodoro.
    Questi prese a massaggiarmi il piede destro e, in men che non si dica, lo portò alla bocca, cominciando a leccare le dita e la pianta. Risi solleticato; era così: ancora non realizzavo completamente e, pur sapendolo, rimasi determinato e pronto a soddisfare Teodoro con euforico entusiasmo, pensando alla fine di Alfredo.
    Lo guardai assorto a occhi chiusi inghiottire le mie dita e inumidire la morbida pelle rosea della pianta del piede. Dopodiché, comincia a fare lo stesso con l’altro. Abituato ormai alla sua ruvida lingua sulla pelle bagnata del piede destro, sobbalzo solleticato per il passaggio al piede pulito. Ebbro e sempre più convinto delle mie intenzioni, continuo la mia performance ridendo e accarezzandomi vorticosamente il petto.
    Teodoro non fu mai così silenzioso; doveva essere al settimo cielo. Non ero arrogante pensando che questo dovesse essere per lui uno dei momenti più lieti della sua esistenza; la sua vita grama era ora mutata in qualcosa di migliore. Grazie a me. Presto l’avrebbe capito fino in fondo.
    Finsi un orgasmo e, con questa scusa, levai la canottiera; con la stessa pantomima, poco dopo sfilai fino alle caviglie anche gli slip, lasciando a Teodoro il piacere di buttarli lontano.
    Sempre in solenne silenzio, Teodoro mi fissa famelico, con sguardo sinistro. Non fossi stato così su di giri, quasi folle, sarei intimorito.
    Ma più passava il tempo, più il mio timore nei suoi confronti diminuiva.
    Passai da prono a supino, capovolgendomi sul letto e gattonando verso di lui. Fatto ciò, sciolsi la cintura di cuoio, abbassandone i jeans beige.
    Nel silenzio rotto solo dalla sua cerniera calare nella mia mano, lo guardai più sicuro che mai, sempre sorridendo, mi leccai vistosamente le labbra. Senza guardare, strinsi nella mia mano il suo membro, duro come la pietra. Quindi, scendendo piano piano, aumentando l’attesa e quindi il desiderio, lo infilai tra le labbra. Prima morsi e succhiai il glande, leccando profondamente la corona, poi inghiotti quel membro dal gusto rancido e del quale ci avevo oramai fatto l’abitudine. Accompagnai l’operazione non risparmiando suoni gutturali e digestivi.
    Sentì fin da subito quel caldo pezzo di carne pulsare e rilasciare piccole quantità di bave appiccicose; Teodoro era già quasi cotto a puntino.
    E, difatti, ben presto cominciò autonomamente a spogliarsi.
    Per non farmi trovare impreparato, decisi di lasciar perdere il suo membro e di stendermi nuovamente prono ad aspettarlo. Come se nulla fosse, continuai ad ammiccare, facendoli cenno con l’indice di avvicinarsi.
    Quando fu libero da ogni impedimento, Teodoro s’issò sul letto dalla mia sinistra, posizionandosi subito dietro di me.
    In men che non si dica e senza ulteriori preliminari, mi penetrò, cominciando a possedermi senza complimenti.
    Sentivo dietro di me il suo ventre fresco; pareva che tutto il calore fosse convogliato solo al mio interno.
    Anche il mio sedere però si dimostrò pronto, già caldo e bagnato per il tanto dimenarsi, scorrevole per Teodoro, il quale, invece di ringraziarmi, mi schiaffeggiò le natiche.
    Risi perversamente, continuando a strusciarmi sul suo torace. Dopodiché, cominciai a toccarmi l’inguine, accarezzando i genitali.
    Pur non potendolo guardare, sentì il suo respiro ansioso sopra il mio orecchio sinistro; la sua pelle bruna e i peli del petto e delle gambe accarezzavano la schiena e i femorali, mentre il suo ventre spingeva sulle mie natiche.
    Per una frazione di secondo, nella mia mente fui conscio di quel momento. E, come per scacciare tale pensiero, ebbi un flashback di momenti passati: ora, io ero Gavin e Teodoro era Jury. A essermi rimasta impressa nei meandri della mente, fu l’espressione contratta e sottomessa di Gavin che, guardando un punto indeterminato sotto di lui, rispondeva spaurito e affascinato a ciò che gli succedeva. Dietro di lui, Jury era assorto, quasi come se non ci fosse altro e se l’unica cosa che contasse fosse godere al massimo delle sue possibilità. Gavin era solo un oggetto da stringere e malmenare, come un piccolo e magro pupazzetto.
    Nella morsa della passione, Jury passò il braccio sinistro attorno al collo di Gavin, spostando la gamba sopra le sue, quindi lo strinse con ancora maggior pressione, in una tenaglia di desiderio. Le percussioni aumentano, suonando sul bacino magro e grazioso, facendosi meno intervallate tra loro. I capelli di Gavin saltano, esclusi quelli appiccicati sulla fronte. Questi ora mi guarda con sguardo vuoto e stanco, ma non pare vedermi.
    Poi, tornai alla realtà. Io ero Gavin e Teodoro era Jury. E fu così che fui battezzato la prima volta.
    Capì solo che avesse finito quando un liquido caldo pulsò quasi bollente sulle pareti del mio retto. Teodoro andò avanti ancora un po’ prima di arrestarsi definitivamente.
    Sarebbe bastato? Conoscendolo no. Ma, in realtà, non me lo chiesi neppure.
    Teodoro però non si mosse; si era solo limitato a uscire. Percepivo che, per la prima volta, stesse guardando verso di me, sopra la spalla. Inizialmente lo ignorai, respirando profondamente per recuperare fiato. Poi, con timidezza, risposi ai suoi occhi; pur non dicendo nulla, non so per quale motivo, capì qualcosa. Quindi, soffocando il mio disgusto, allungai il braccio e lo spinsi, premendo sul petto finché la schiena non poggiò sul materasso e la testa tra i due cuscini.
    Sorpreso da me stesso, incapace di spiegare come ci riuscissi, come potessi alienarmi dai miei istinti reali, mi stesi di prepotenza sopra di lui, lasciando combaciare i miei genitali ai suoi.
    Soffocai un'altra volta il disgusto per quel tocco tanto ripugnante. Era come se le stesse intimità di Teodoro fossero viscide quanto la sua personalità. Forse proprio per questo, trovai la forza di alzargli le gambe con le braccia, fino a possederlo.
    Teodoro gemette di sorpresa, una sorpresa che però si aspettava. Nelle sue grida, nei suoi gemiti, c’era una soddisfazione perversa. Anch’io capivo cosa potesse significare per lui. E mentre lo possedevo così, per la mia prima volta, lo sentì come sporco, anche se in realtà non sentivo alcun impedimento tangibile. Se non era abituato però, avevo paura che, più insistessi, più mi sarei trovato una brutta sorpresa al ritorno alla luce.
    Non fu dunque facile premere nella carne con questa consapevolezza. Eppure, quando Teodoro mi chiese di non finire dentro, a differenza del solito, quando mi trovavo in quel momento catartico, non ebbi esitazioni ad arrestarmi. Teodoro non aveva un fisico né grasso, né imperfetto, se non più villoso rispetto ai miei normali standard. Ma non lo sopportavo più, anzi, non lo sopportavo ancora. Eppure, mi sarei dovuto abituare a quei capelli lisci e radi, a quel pizzetto disomogeneo, ai suoi capezzoli grossi e sporgenti, al suo pungente odore naturale, reso ancora più potente dal respiro intriso di profumo di tabacco e alcool. Quello sarebbe stato tutto quello che avrei avuto d’ora in avanti.
    Mi stesi sul letto, tenendo la schiena ritta sui gomiti e flessa con gli avambracci. Quindi, piegai anche le gambe, ritte sui piedi. Infine, le allargai, lasciando che Teodoro, con una capriola, fosse tra le mie cosce.
    Eccitato più dall’incessante sfregare che dal suo amore, fui caldo e avvolgente quanto la sua bocca sul mio scroto, accarezzandoli con vigore le guance. Esattamente come Nicolò qualche giorno prima fece con Nima. Fu la sua ultima volta. Ma non realizzavo al momento quest’aspetto, né che la sua ultima relazione non fu con me. In questo momento, Nicolò, e così anche Nima, era un immagine priva di implicazioni.
    Nella mia mente viziosa, quella posizione mi ricordava solo quanto mi piacesse Nicolò quando si metteva così. E non perché era lui, ma perché mi piaceva così tanto la sua pelle bruna, il suo petto stretto e sodo, le sue gambe lunghe e toniche, così come le sue mani ampie e delicate e i suoi piedi rosei e lunghi. Per non parlare delle sue labbra, dove tutto sembrava appiccicarsi, e i suoi intensi occhi azzurri. Ricordai il piacere dell’acqua scorrere lì e sul suo corpo, scendendo con incantevole grazie, quasi solenne. Poi, a rendere ancora più magico ed eccitante questo pensiero, ci pensò Nima, ancorato come una ventosa alle sue intimità. Questi, magro e aggraziato, era chino in punta di piedi sotto di lui, dandomi la vista di una schiena promettente, scavata dalle scapole. Un attimo dopo, Nicolò strinse quella testa sotto di lui con la mano destra, affondando le dita nella chioma mora. Vidi flettere all’indietro l’addome, come se Nima gli portasse via l’energia. Nicolò parve allora trattenerla ispirando e ritraendosi un poco. Ma, anticipando la resa con un smorfia della bocca, infine s’arrese. Nima, come gustandosi la vittoria e per tutto l’impegno messosi, parve voler rimanere così fermo ancora a lungo, ma, da un momento all’altro, come se avesse finito e non ci fosse più nulla, si sedette sul freddo pavimento, allungando le mani dietro di sé e tenendosi seduto. Di profilo, mi parve sorridere. Ma, forse, era solo una smorfia di stanca soddisfazione. Scrutandolo, mi sembrò stretto e lungo nel fisico, quanto ingenuo e innocente. Come poteva aver dato tanto da fare a Nicolò?
    Questi, senza dargli soddisfazione di stanchezza, si alzò scomparendo nel buio; sapevo dove stesse andando.
    “Aah!” gemetti stringendo la testa sparuta sopra il mio membro. Ma, a differenza di Nicolò con Nima, non fui così cortese, cercando di sprofondare questa fino ai testicoli con così tanto impeto da curvare la schiena in avanti e alzare i talloni premendo sul letto. Quindi, venni copiosamente nella sua bocca.
    Quando Teodoro fu sazio, lui, che aveva accettato senza lamentele di essere spinto bruscamente fino alla base del mio membro, uscì di un colpo, lasciando raggelare la mia asta che, penzolante e infreddolita, rilasciava ancora strisce di sperma scendere veloci attorno alla pelle dello stesso, soffermandosi sull’inguine. Seppure il mio membro scattasse ancora involontariamente, non c’era forza nei suoi spasmi e tutto ciò che uscì rimase incollato al di sotto. Ma Teodoro aveva in buona parte fatto tesoro del mio prodotto; reggendosi sulle ginocchia, la prima cosa che notò furono i miei pettorali in avanti e, provocato, anche ora che ero tornato nella stessa posizione precedente, con il peso sui gomiti, non riuscì a dimenticare la floridità di essi. Quindi, si focalizzò sul bottone destro, vomitando su di essa un indicibile quantità di liquido bianco. Lo stesso fece, con quantità minore, dall’altra parte. Quella non era la sua bava; le stesse gocce che imbrattavano i miei testicoli, ora scendevano veloci dal mio petto, arrestandosi sull’ombelico. Teodoro, quasi reo del danno e come se volesse riparare a esso, cominciò a detergermi attorno all’aureola del capezzolo sinistro, poi di quello destro. Ma con il risultato di impiastricciarmi soltanto, pur eliminando parte della densità del liquido. Nella mia bontà, invece che redarguirlo, lo premiai con gemiti di piacere.
    Prima però che completasse il suo compito, fu nuovamente attratto particolarmente dalla macchia sporgente sulla mia destra e in mezzo al petto, come un ape dal fiore. Quindi, cominciò a succhiare, quasi si aspettasse di essere allattato. Come se non bastasse, allungò le mani attorno al mio petto, accucciandosi dentro lo spazio creato dalle mie gambe. Quindi continuò a succhiare. Sentivo la forza di tale risucchio sul mio capezzolo; ora, era così forte e continuo che quasi mi parve me lo strappasse via. Istintivamente, trattenni la sua testa, premendo con le unghie, fino a che Teodoro capì e allentò la morsa, succhiando con maggiore dolcezza.
    Solo allora lo accarezzai come premiandolo di tanta sagacia e intelligenza. E rimanemmo così per qualche infinito istante. Mi parve davvero che stessi allattando quel bambino troppo cresciuto dal mio giovane seno. Un immagine perversa e che mi fece rabbrividire. Non riuscì a resistere di più e, con un pretesto, mi spostai.

    -

    La prima volta che vidi Francesco dimostrare tutto il suo piacere alla presenza di Vincenzo, fu a bordo del letto di Jury. La cosa che più mi piaceva di lui, era quell’esplosione di ricci che notai sin dal principio. Sembravano rendere ancora più minuti e aggraziati quei lineamenti androgini del viso e quegli occhi limpidi e profondi. Il corpo era invece stato sempre un po’ scarso; piacevole ma poco disegnato, al di fuori delle gambe, leggere ma muscolose, da calciatore qual era. Ecco perché preferivo ammirare il viso, ora teso in una morsa di piacere. Sotto di lui, arrabattato tra la pecorina e la posizione a novanta, il piccolo e bronzeo Vincenzo.
    Capivo appieno le emozioni di Francesco. Vincenzo, piccolo e vispo, avevo avuto la fortuna di averlo nelle gonadi. Magrolino e tenero, era però elastico e snodato. Uno dei più emozionanti e stranianti rapporti, era stato sicuramente con lui.
    Ora invece non potevo dire di essere come lui; non solo non mi sentivo né particolarmente elastico, né vispo, ma neanche di trovarmi in posizione ibrida. Ero chiaramente a pecorina, con Teodoro dietro e dentro di me.
    Non ero come Vincenzo, ma ce la mettevo tutta: arcuavo alla bene e meglio la schiena, porgendoli il sedere. Al mio interno, percepivo il profondo calare e sfregare di Teodoro, aiutato da ciò che rimaneva della eiaculazione precedente. Anche se dunque non serviva, simulai enormi gemiti di ringraziamento quando questi, prima di tutto, decise di prepararmi succhiando e leccando il contorno del mio ano con tanto di rumorosi singhiozzi. Esattamente come fece Davide pochi giorni prima a Francesco. Tenevo la testa tra i miei avambracci; no, non mi pareva proprio di essere come Vincenzo, ma me la cavavo, o almeno Teodoro me lo faceva credere e pensare. Non mi sembrava si lamentasse o che non gradisse.
    Mi sembrava più che altro di essere come Daniel con Alessandro: passivo, inerte, ma anche ammortizzante e invitante, quanto i suoi glutei che rimbalzavano come i miei alle sonanti battute.
    Quando Teodoro venne, fu così copioso che mi domandai quanto piene potessero essere le sue palle. Possibile fosse già venuto prima? Non pareva affatto. Immaginai il suo sperma scendere così profondo da percorrere tutto il circuito dell’intestino e depositarsi nello stomaco.
    Ma, prima ancora che questa immagine scomparisse, mi ero già mosso preparato al da farsi.
    Cercai di farlo scivolare spingendo con il braccio destro sulle gambe. Non ci riuscì, allora Teodoro mi diede una mano, incuriosito sulle mie intenzioni; ora che avevo la sua attenzione e approvazione, con entrambe le braccia, ma meno violenza, lo feci sedere. Poi lo issai e, contemporaneamente, mi sedetti allargando le gambe e flettendole lateralmente sul materasso. Quindi, con tutta la forza in corpo, cercai di sollevarlo sopra il mio membro. Per quanto Teodoro fosse poco più basso di me e non particolarmente robusto, la potenza delle mie braccia e la pressione delle mie cosce non bastò. Dovetti quindi fare leva rialzando le gambe e premendo con i piedi. Solo allora Teodoro poté allargare le sue e incrociarle dietro il mio coccige, saldandosi più stretto di quanto volessi. Ma ignorai le mie sensazioni e gli fui nuovamente dentro.
    Anche questa volta, Teodoro ringraziò con i suoi gemiti da cui traspariva la gioia. Ora che stavamo insieme, questi mi offriva un rapporto alla pari, con me nelle veci di maschio dominante e dominato. Mi donava il suo frutto che, per quanto mi parse più marcio che amaro, continuai a inghiottire. Con violenza lo possedetti, convinto di dimostrare tutta la certezza della mia convinzione.
    I suoi fianchi smunti ballonzolavano spasmodici, mentre le mie percosse producevano un suono sordo e quasi meccanico. Nel precedente rapporto con me dentro di lui, non avevo avuto piacevoli sorprese postume; ecco perché, fui più tranquillo e, al contempo, profondo nell’azione.
    Solo per la prima volta dopo tutto quello, Teodoro mi diede le sue labbra. Quasi avevo dimenticato che c’era anche quello: avrei dovuto baciarlo chissà quante volte, toccando le sue guance emaciate. Ma, come se non aspettassi altro, gli venni incontro e lo baciai. Poco dopo, le nostre lingue s’intrecciarono tra le nostre bocche. Al di là del puzzo del suo alito, non ebbi che una sensazione neutra, quasi anestetizzante.
    E continuammo così, sempre più stretti, sudanti e ostruiti nei nostri pertugi. Fino a quando dovemmo mollare le nostre bocche, troppo affaticato io e godurioso lui, per non esprimere in gemiti le nostre emozioni. Le ultime percosse furono più violente, profonde e intervallate nel tempo. Quindi venni, pareggiando i conti.

    -

    In un mix di realtà e ricordi, l’ultimo estraniante flash che mi aiutò ad amar me stesso e il mio sacrificio furono Lorenzo e Nicolò. Quest’ultimo, forse per un neanche tanto ancestrale ricordo, quello del suo primo rapporto con Ajene, aveva portato Lorenzo sul muro, l’aveva issato su di sé, schiacciandolo sulla pietra e l’aveva avuto. Lorenzo, forte nell’animo e carismatico nel carattere, mi parve come un canguro nella borsa della madre. Nicolò, altrettanto narciso e fiero, pur fosse più grande, era stato “acquistato” da Lorenzo per il bordello. Dopo aver ingoiato il rospo per il fatto di essere più grande, ma comunque meno esperto, ora doveva anche ammettere di essere infatuato di lui. Lorenzo, per quanto apparisse, non era però un ragazzo cattivo. Per questo mi piaceva ancora di più che quell’aspetto incantevole. Più dei suoi capelli biondi, i suoi occhi verdi e quel fisico snello e sportivo che rasentava il mito.
    E a Nicolò, che era bello quanto desideroso di essere ammirato, non disse di no, ma, solo con malcelato contegno, accettò la sua corte. E così come è probabile tra due maschi alfa sicuri di sé, farsi sfuggire quell’occasione non era possibile. Per Nicolò, non c’era forse nulla di meglio che possedere Lorenzo come lui era stato lui con Ajene.
    Il contesto tra me e Teodoro era invece ben diverso. Il rapporto ormai era assodato e comprovato. Ma anch’io fui alzato e sbattuto al muro. Non smetteva mai di stupirmi quella brutalità di Teodoro, così forte purché la natura non gli avesse fatto dono di un corpo prestante.
    E, tra gemiti falsamente incontenibili, e lo sbattere di terga e gambe, quello fu l’ultimo ricordo a illuminarmi dalle ombre del mio futuro con quell’uomo che non odiavo, almeno nel confronto con Alfredo, ma non amavo.

    -

    Ancora una volta, scesi in quel luogo angusto e freddo. Non l’avrei fatto se Teodoro non mi avesse promesso di non rinchiudermi nuovamente in gabbia. Oggi non c’era neppure Nima e avrei avuto ancora più paura. Ad aiutarmi c’era anche un altro fattore: a impedirmi l’impatto dei ricordi c’era il fatto che fui bendato. Quindi, l’unico modo con cui percepì di aver trapassato la porta fu il freddo pungente del bunker di Teodoro.
    Camminai davanti a lui, scendendo lentamente le scale a piedi nudi. Tutto ciò che avevo addosso, oltre alla benda sugli occhi erano alcuni accessori che Teodoro, con insistenza, mi aveva pregato di indossare: innanzitutto, due polsini in pelle agganciati l’uno all’altro da due piccole manette d’acciaio, due cavigliere lasciate libere e un morso con pallina a imbavagliarmi.
    Quando Teodoro mi propose di indossarli, non ebbe il coraggio di dire quello che mi stesse proponendo: pur ritenendolo capace di una perversione così sadica e fetish, appena capì, cominciai a preoccuparmi, non nascondendo un evidente disagio e desiderio di diniego. Ma Teodoro mi riempì di promesse, sussurrandomi con tutta la dolcezza che possedesse che non era come pensavo, che non mi avrebbe né legato, né torturato, ma semplicemente ammanettato e bendato per provare un innocuo marchingegno da basso.
    Seppur non credetti molto al fatto che si trattasse di un giocattolo innocuo, accettai, pentendomi subito, pieno di spavento e dubbi rabbonito stupidamente dalle suppliche insistenti di Teodoro. In fondo, se dovevo accettare lui, non potevo tirarmi subito indietro di fronte a delle possibili, quasi inevitabili, devianti perversioni.
    Dopo essersi rivestito, prima mi ammanettò, facendomi subito dubitare delle appena citate promesse, e cinse anche le caviglie dicendomi vagamente che la macchina aveva bisogno di sostenermi dai quattro arti. Guardai i polsini in pelle; erano spessi ma morbidi, incisi internamente. Erano in ottimo stato, quasi nuovi. Le manette erano così piccole da sembrare quelle con cui far giocare i bambini. La qualità perversa di quegli oggetti mi tranquillizzò un po’ e lasciai che mi bendasse. Solo dopo, mi pregò di lasciarmi mettere anche il bavaglio tra i denti. Quest’ultimo aggeggio lo negai a lungo prima che, in un attimo di indecisione, lasciai fare.
    Per non rischiare di cadere dalla rampa, Teodoro mi teneva da dietro le manette tra i polsini. Non mi rimaneva che il tatto, reso difficoltoso dalle manette, l’udito e l’olfatto. Dopo molto tempo, fummo nello stantio e gelido sottoterra. Solo allora, Teodoro lasciò la presa per precedermi; fermo, immobile e cieco, sentì questi muoversi poco lontano. Infine, percepì scivolare un tessuto lungo un oggetto e vibrare lontano. Teodoro doveva aver liberato il velo da uno di quegli aggeggi che, qualche giorno prima, quando vidi per la prima volta, pensai fossero pezzi di motore o roba simile. Non doveva essere così.
    Sobbalzai quando sentì prendermi delicatamente la mano destra. Teodoro, con dolcezza, m’invitò a seguirlo nuovamente. Senza dire nulla, lo feci. In realtà, mi limitai a un paio di passi sul freddo suolo, poi fui fatto girare.
    Teodoro si allontanò da dietro di me, fece un lungo giro e si portò avanti.
    “Tesoro, allunga le mani…” mi pregò con tono dolce e mellifluo. Si trovava davanti a me, ma non molto vicino.
    Con un po’ d’esitazione, allungai lentamente le braccia; quando queste furono perpendicolari alle spalle, sentì Teodoro toccarmi le falangi e fare una leggera pressione in sua direzione. Senza che mi chiedesse alcunché, feci qualche altro passettino in avanti.
    “Fermati!” ordinò poco dopo. Con un gesto dei polsi, racchiuse le mie mani nelle sue, quindi le abbassò, le lasciò un attimo, scattò le manette aprendole e mi allargò le braccia. Mi piegai leggermente verso il basso e in avanti, finché senti dei piccoli archetti di metallo su ambo le mani.
    “Metti le mani in mezzo” disse Teodoro. Capì cosa intendesse e spostai esse al di sotto; in men che non si dica, Teodoro agganciò il polsino destro a un gancio e si accinse a fare lo stesso dall’altra parte.
    “Oh Nico, non potevo chiedere di meglio che te per questo…” commentò entusiasta, mentre agganciava l’altro polso.
    Rimasi dunque a novanta gradi con le braccia tese faticosamente in basso e la schiena dolente. Teodoro si mosse; sentì i passi dietro di me.
    Era questo che voleva? La macchina era tutto qui?
    Pensai che, essere penetrato a lungo in quella posizione dovesse essere una sofferenza unica. Cominciai a sudore freddo.
    Per mia fortuna, non fu così.
    Lo capì quando Teodoro chiuse la mia caviglia sinistra nella sua stretta, invitandomi ad accompagnarlo. Piegai dunque la gamba; così come fu per i polsi, era ora per le caviglie. Facendo lo stesso con la gamba destra, mi trovai presto a penzoloni a mezz’aria, o almeno così pensai. Ma ancora una volta, la realtà era migliore delle mie paure, perché sotto di me sentì il busto toccare un ampio sedile in cuoio, discretamente comodo e, per quello che potevo immaginare, di forma rettangolare.
    Legata la caviglia sinistra, ero finalmente pronto: il macchinario, come mi aveva garantito Teodoro, non era nulla di che; non faceva altro che obbligarti a stare a quattro zampe e gambe rigide, con la sola scomodità di avere la schiena un po’ troppo arcuata per poter essere sostenuta senza fastidio per molto tempo.
    “Hai visto? Ho fatto. Nulla di difficile, no?” chiese Teodoro che non si aspettava una risposta. Doveva essere rinfrancato dal mio atteggiamento tranquillo.
    Stetti in silenzio. Oltre tutto, la mia bocca era impedita e volevo evitare una fatica inutile se possibile. Ma non feci neppure in tempo a pensare questo, che sentì conficcare nel mio ano: Teodoro era penetrato con un dito e, senza sforzo, lo ritirava indietro e lo rispingeva, indifferente alle resistenze poste inutilmente dal mio retto.
    “Mmm!” gemetti istintivamente. Ciò che fuoriuscì dalla mia bocca produceva, a causa della gomma della pallina, un suono ben differente dalle mie intenzioni. Sembrava quasi godessi, quando invece stavo soffrendo.
    Teodoro, imperterrito, ignorandomi, inserì poco dopo il secondo dito, penetrando senza rispetto.
    Sentivo bruciare il mio ano.
    “Sii forte. Dopotutto, questo è quello che stiamo facendo” disse ora freddo.
    “Se farai il bravo, le cose andranno bene…” m’intimo pacatamente, raggelandomi più della bassa temperatura.
    Appena finì la frase, tentò di inserirmi il terzo dito. Spaventato, cominciai a urlare e dimenarmi, ma i suoi uscirono bassi, mentre i movimenti erano inutili.
    “…Eo o!” era tutto quello che si poteva comprendere: “…asa!”
    Questa volta il retto riuscì ad opporsi; fu inutile per Teodoro premere con brutale prepotenza. Non fece altro che graffiarmi la parte inferiore dell’ano, lasciandomi ancora più scosso e urlante.
    Allora si arrestò e anch’io mi calmai. Finalmente, doveva aver capito.
    Ma, poco dopo, sentì gocciolare appena lontano, poi, una frazione di secondo dopo, sentì nuovamente all’interno indice e medio: prima orizzontalmente, poi capovolte verso di su. Tutto questo con una naturalezza e fluidità che mi stupirono. Sentivo ora la sostanza oleosa sulle dita, calda e densa, rimanere attaccata alle pareti rettali. Ma sentì anche che l’anulare, così come il mignolo, fermi sotto il mio ano, era bagnato della stessa sostanza. E infatti, quando Teodoro uscì, ci riprovò e, questa volta, la resistenza dei miei muscoli durò solo per un poco e le tre dita penetrarono. Inizialmente, mi spaventai sentendo il retto come ingrossarsi al passaggio delle sue falangi, ma poi il dolore scomparve e mi abituai alla sensazione. Ciononostante, avevo paura del dopo.
    “Teo! Teo!” urlavo, perché quelle tre lettere, con uno sforzo vocale, erano percettibili anche in quello stato.
    Avevo paura che questi volesse arrivare a infilare tutta la mano. Immaginai la scena e i miei occhi cominciarono a inumidirsi dal terrore.
    “Teo!” urlavo disperato.
    Questi pensò fosse abbastanza per le tre dita e uscì. Mi stavo lamentando anche se mi ero abituato: era abbastanza acuto per poter capire? Ne dubitavo e, anche se l’avesse fatto, non mi avrebbe probabilmente ascoltato. Quello era Teodoro.
    Tremavo ora come una foglia al vento; sentì la mano gelida, quella sinistra, ancorarsi lentamente al mio fianco.
    “Teo! No!” urlai, ma non ci speravo più.
    Staccò la mano sinistra. I miei occhi bruciavano.
    “Sta buono…” disse con rinnovata dolcezza. C’era una nota divertita nel suo tono.
    Attesi impotente a occhi chiusi. Poi sobbalzai.
    Le sue mani non erano né a fianco, né dentro, ma nemmeno vicino al mio sedere. Erano sul mio collo; ebbi un fremito e poi capì: mi stava indossando un collare.
    Perché ora pezzo di merda? Cosa vuoi fare?
    Per agganciarlo, si sedette con le terga sulla mia schiena, come nulla fosse. Infine, quando ebbe fatto, sentì scendere una catena che mi agganciò dietro al collo.
    “Mmm!” feci spaventato. E ora? Che succedeva? Era stato troppo bello pensare che fosse tutto qui il macchinario.
    Teodoro smise di cavalcarmi e si limitò a mettersi dietro le terga, strusciandosi con il membro in tiro da sotto i pantaloni, appoggiandosi al coccige con le mani. Infine, mi penetrò.
    Tirai un sospiro di sollievo sentendo il suo pene scorrermi all’interno. Quello sì potevo accettarlo. Eppure, fu la “gioia” di un attimo: poteva essere solo quello? No, non poteva. E lo percepivo anche dallo stesso Teodoro che mi scopava con ardore, ma senza gemiti e senza quella foga che lo contraddistingueva ogni volta. Era come se solo prendesse una pausa e si rilassasse.
    Quasi non sentivo più nulla, tanto ormai ero abituato a essere penetrato. Il membro scorreva libero e profondo dentro al mio corpo quasi inanimato. Approfittai di quello per prendere fiato dopo la recente paura. E quando uscì, senza essere venuto o avermi dato la sensazione di andarci vicino, aspettai il mio destino.

    -

    I miei polsi e le caviglie furono liberate. Per mia grande sorpresa, scattai in piedi esultante. Al contempo, appena fui ritto, sentì il gelo della catena toccare fino ai dorsali. Anche questa volta, fu la gioia di un attimo: Teodoro prese le mie mani da davanti e le riammanettò. Poi, con un gran fracasso, trascinò lontano la macchina utilizzata finora.
    “Alzale!” ordino freddo e pieno di malcelata bramosia.
    Così feci, ignaro ancora che la promessa di Teodoro non solo si era dissolta nell’aria, ma veniva persistentemente calpestata. Sentì scattare un altro gancio; da allora, le mie mani furono bloccate così.
    Teodoro camminò a lunghi passi lontano, attivando qualche pulsante. Ed ecco che venivo tirato su. Tutto avveniva lentamente: prima sentì tirare le braccia e mi fu naturale alzarmi in punta di piedi, poi persi il contatto con il suolo, rimanendo a penzoloni. Infine mi fermai.
    Mossi le gambe, cercando di capire quanto fossi distante da terra. Morsi più forte che potevo la pallina di gomma nel palato e, contraendo le gambe, riuscì a sfiorare con le punte degli alluci il terreno. Ma questa libertà durò poco, perché, con un altro gancio, Teodoro serrò velocemente le cavigliere tra loro, in barba a ogni giuramento.
    “Oh Nicolò perdonami… Non avresti mai capito…” si scusò Teodoro. Nella sua voce, non c’era traccia di dispiacere.
    Cosa significava tutto quello?
    “Non temere…”. Come credergli ancora?
    “Cerca di stare al gioco…” sussurrò così piano che quasi pareva non volesse essere sentito.
    Invece, quello che più colse la mia attenzione, fu un sibilo che parve seguire i suoi passi. Come di qualcosa di lungo che si trascinava. Inclinai la testa, come per porgere l’orecchio e sentire meglio.
    Ciaf!
    Sobbalzai; lo schioccare di un frustino assordò il timpano sinistro. Teodoro aveva colpito a terra a breve distanza da me.
    Non potevo crederci… Cominciai a sudare freddo…
    “No…” supplicai da dietro la pallina.
    “Non ti preoccupare…” mi canzonò lui con voce divertita.
    Invece ero preoccupatissimo.
    “Non hai fatto nulla per meritarlo. Ti sei sempre comportato bene…” mi rassicurò lui.
    Per un attimo, volli credergli.
    “Certo…” e s’interruppe per dare una frustata sullo stesso punto. D’istinto, abbassai il collo e curvai la schiena, come se volessi arricciarmi a protezione.
    “Questo direi se fossi uno stupido. Come forse tu pensi che io sia…” riprese con una sottile venatura di astio nella sua voce divertita.
    “No? Non è così?” domandò.
    “No!” urlai come potevo.
    “U e ro…” spiegai.
    “Hai ragione…. Dovrei apprezzare i tuoi… sforzi. Gli chiamiamo così? Devi sforzarti per me? Non sono abbastanza gentile?”.
    Stava facendo tutto da solo. Eppure, aveva ragione. E questo mi preoccupò; ancora una volta avevo sottovalutato una persona. Per di più pericolosa.
    “Non preoccuparti… So che non è così…” aggiunse. Sentì un suono stridulo, come se stessero tirando dei lacci. Doveva essere Teodoro che stringeva la frusta tra due estremità.
    “Infatti, la verità è che io non sono abbastanza per te… Non sono abbastanza per nessuno!” e colpì di nuovo a terra. Orai nel suo tono non c’era altro che una disperazione rabbiosa.
    “O è csi” dissi agitandomi, come se volessi battermi per lui.
    “Come se non lo sapessi!” perseverò con lo stesso tono. Mi stava dando retta.
    “Lo so perché lo fai… Ma dovresti impegnarti di più!” mormorò ora con voce controllata.
    Rimasi sull’attenti.
    “Oh si… Fin dall’inizio… Sei bravo. Lo ammetto...In certi momenti… Mi hai quasi ingannato… Sei un bravo attore… Se non sto attento… Ma per me, fin dall’inizio, non hai mai provato quello che provo io…”.
    Non seppi mentire. Rimasi solo in silenzio.
    Teodoro zittì qualche istante, come se si aspettasse, o sperasse, in un mio intervento rivelatore.
    “E come potresti? Non sono bello… Non sono degno di far parte dell’harem in cui tu sì… Tu sì potevi… E invece? No, non andava bene. Alfredo ha creato un sogno, ma te ovviamente non eri d’accordo” fa con tono sarcastico.
    Non avevo parole. Ci sarebbe stato poco da commentare.
    “Che cosa c’è? Non dici niente?” continuò con lo stesso sarcasmo. O forse, davvero sperava in una mia reazione.
    “Che fai? Non rispondi perché sono troppo stupido? Brutto e stupido… Tesoro?” e sghignazzò.
    Avevo sempre più paura. Non solo e non tanto per la frusta che accarezzava sonoramente tra le mani, ma per ciò che stesse dicendo. Teodoro non era affidabile… Ma fino a che punto? Io non avevo modo di replicare, neppure volendo.
    “Perché se non ti offrissi così… Chi mai potrebbe volermi?!” urlò.
    “Lascia che ti racconti una storia… La storia di un uomo che non ha mai avuto niente!” proseguì camminando intorno alla stanza e brandendo la frusta.
    “Non ci crederesti, ma un tempo… Forse Alfredo avrebbe offerto anche a me la vita al bordello” disse sogghignando compiaciuto.
    “Oh si… Quando ero piccolo… Mio padre era così orgoglioso del piccolo Teodoro! A nove anni imparai a memoria tutta la prima parte del dizionario… Non so come feci… Ora non ricordo neanche la lista della spesa… Ma forse i geni autistici di mia madre mi furono utili… Insomma, appena arrivava un amico a casa, mi prendeva, mi diceva una parola e io gli davo tutta la definizione del dizionario, sinonimi e contrari compresi… Quando invece ero solo, mi faceva i complimenti, mi diceva “Studia Teo. Impegnati e diventerai uno scienziato”… Poi mi accarezza la testa affettuosamente… E poi mi accarezzava altrove… Eh si… La verità è che non gli importava tanto se fossi diventato uno scienziato! Nessuno della mia famiglia era più che un operaio… Però gli piacevo, questo sì… Non smise mai… Quel pezzo di merda non smise fino alla sua morte! ” urlò rabbiosamente, troppo sofferente per parlare in termini chiari.
    Lo sentì avvicinarsi alle spalle; chiusi gli occhi e morsi la pallina.
    “Forse ora pensi che sono stato io… Mi sarebbe piaciuto… Purtroppo, non è così. E’ stato l’alcool a ucciderlo. Nessuno andò al suo funerale. Mia madre era in casa di cura e ci sarebbe rimasta… E io… Beh… Tale padre, tale figlio, no?” mormorò dietro alle mie spalle.
    “Nulla di che… Un piccolo atto di piromania alla casa del mio professore del liceo… Ho fatto di peggio” commentò, chiudendosi poi in un lungo silenzio.
    “Insomma…” esordì nuovamente dopo molti secondi. Teodoro ora era fermo e distante da me.
    “Non so se è per colpa di mio padre. O se è proprio un problema di geni… O di una vita di stenti e inutili fatiche…” proseguì quasi parlasse con se stesso.
    “Non lo so… Non lo so proprio... Ma a questo punto della vita… Penso solo… Penso solo… Che sia solo un insieme di tutto!”. Prese la rincorsa e vibrò un colpo sulla mia schiena.
    Ero ormai così preso dalle sue parole, quasi tranquillo, da farmi prendere di sorpresa. Anche negli istanti successivi dopo che fui percosso, non me ne resi conto; sentì solo un dolore improvviso e accecante lungo la mia schiena, come un taglio profondo. Dolore che si propagò poi sul resto della schiena.
    “Aah!!” urlai a squarciagola, quasi ingoiando la palla.
    Sentì camminare Teodoro davanti a me.
    “Ed è diventato più forte di me… In genere mi trattengo, ma poi…” e prima che finisse una frase, partì un'altra battuta.
    Questa volta però intuì la mossa, suggerito dalla pausa tra le sue parole. E prima che colpisse, piegai le gambe fino all’inguine. Quella mossa fu salvifica, perché il colpo vibrò proprio sulle ginocchia. Ora in fiamme.
    “Mmm! Ast! Ast! Eo!” gridavo senza fiato.
    “Non opporti!” gridò rabbioso, colpendo ancora e ancora.
    Il primo colpo finì nuovamente sulle ginocchia e così anche il secondo. Ma un rinculo della coda del frustino arrivo fino a lenirmi le parti molli della pancia, causandomi un dolore straziante e a cui non riuscì a resistere, cominciando a piangere: per il dolore, prima di tutto, e poi per la situazione in cui mi trovavo, per il futuro che mi aspettava, per la perdita di Nicolò e per tutte le sofferenze provate in quell’ultimo periodo. Piansi come un bambino e senza sosta. O almeno l’avrei fatto.
    Ma Teodoro non aveva pietà che del suo dolore. Prese solo un attimo di pausa.
    “Non resistere!” pronunciò fuori di sé. E non lo feci; sconfitto e distrutto, abbassai le gambe e fui colpito.
    Un dolore sordo arrivò fino al cervello, Teodoro aveva colpito proprio lì. Il bruciore era tanto forte che non ero in grado di affermare se qualche pezzo del mio corpo non fosse schizzato lontano. Quasi svenni, ma l’unica cosa che feci di sicuro fu smettere di piangere. Quasi mi fossi arreso al mio destino.
    Dopo quel colpo, Teodoro camminò a passi veloci dietro di me.
    “Non devi resistere!” ripeté, intervallando le parole con tre frustate.
    “Ah!” urlai scuotendomi a ognuna di esse. Ma non fu che una reazione istintiva. Ora il mio corpo era così infuocato che credetti che forse stessi arrostendo in una brace.
    Le vecchie lacrime scesero sul naso fino al mento. Anche il mio naso gocciolava muco che mi entrava nella bocca aperta quando tiravo su in cerca di ossigeno. Arreso al mio destino, non fui però più toccato.
    D’improvviso sentì trascinare nuovamente la macchina fino a davanti a me. Poi Teodoro cu salì sopra. Infine, udì il rumore di una cerniera abbassarsi e un arrabattare. Infine, mi sentì schizzare sull’addome infiammato. Una, due, tre volte. Il quarto schizzo finì sulla coscia sinistra, mentre un altro sfiorò il piede, bagnando le dita e il lato prossimale del tarso.
    Otto frustate, ecco quante ne avevo ricevute per il suo piacere.
    Ansimante, ma apparentemente più tranquillo e stanco, Teodoro si allontanò. Ora, stava schiacciando nuovamente dei bottoni; poco dopo, sentì la catena calare e toccai a terra, ma non riuscì a tenermi in piedi. Il dolore, ma anche quella posizione, mi aveva intorpidito gli arti e informicolato mani e piedi; senza la catena, sarei crollato a terra.
    Quando Teodoro mi liberò le mani, con uno sprazzo di orgoglio misi tutta la mia forze nelle gambe per non crollare sul pavimento. Quindi, riuscì a tenermi inginocchiato con le mani al suolo.
    “Mi dispiace Nicolò… Lo so che è una follia…” disse liberandomi prima dalle manette alle cavigliere e poi da quelle ai polsi.
    Otto frustate. Otto.
    Se avessi avuto un briciolo di energia, l’avrei istintivamente percosso.
    “Per…” cominciai debolmente a pronunciare guardando verso l’alto, nella probabile direzione dei suoi occhi, prima di ricordare che non riuscivo a parlare. Teodoro non era che un uomo di Alfredo. Tra i “migliori”. Se avessi potuto, se non mi fosse stato necessario, avrei fatto in modo che pagasse con gli interessi. Invece, se la sarebbe cavata. Grazie a me. Realizzai che quella prossima, sarebbe stata solo una vittoria a metà. Una vittoria monca.
    Eppure, quel tono parve essere cambiato. Potevo essere così stupido da farmi abbindolare?
    “Perdonami… Ora ci penso io… Disinfettiamo questi tagli…” disse premuroso, levandomi la benda. Lo guardai e ne rimasi stupefatto: il suo viso era disteso, quasi fragile. Sembrava un altro; una persona a cui addirittura si potesse provare affetto.
    “Te lo giuro… Non succederà più… Devo imparare a gestirla… Succede di rado… Ma quando succede è violenta… Ti giuro che è così. Se riaccadrà, mi allontanerò da te” e mi abbracciò teneramente.
    Di che cazzo parlava? Ma, soprattutto, chi era quell’uomo?
    Sarei dovuto essere funesto, e lo ero, eppure quell’uomo sembrava il ritratto della bontà. Se l’avessi anche picchiato, come se ne fossi in grado, mi avrebbe dato l’idea di prendermela con l’uomo sbagliato.
    Teodoro non disse altro e mi aiutò ad alzarmi. Infine, tenendomi con il braccio sinistro sulla sua spalla, ci dirigemmo verso i gradini.
    Una cosa era certa; la prima impressione che ebbi di lui era quella corretta.
    Teodoro era uno schizzato.

    -

    “Non me la sento… Non ancora… Ti prego vai tu… Ti prometto che la prossima volta sarò pronto”.
    Teodoro mi parlava con pacatezza, ma il suo tono era lo stesso di quello che, con occhi lucidi, pianse invocando il mio perdono. Ci trovavamo dall’altra parte dell’isolato di una via costellata da alti cespugli. Dall’altra parte della vettura di Teodoro, si trovava anche l’abitazione di Massimo.
    “Va bene Teo… Mi stai facendo troppe promesse. Ricordati di mantenerle però…” dissi accennando un sorriso. Non credevo neanch’io in me stesso e del fatto che mi fosse così facile essere gentile con lui. Poche ore prime mi aveva addirittura appeso e frustato. E ora ero pendevo dalle sue labbra. Ci credevo davvero; mi sembrava sinceramente un uomo rinato. Come se, superata la follia, mister Hyde tornasse il dottor Jekyll. Era vero che, dopo tutto quello che era successo, mi sentivo debole e sensibile, ma fino a credere a una menzogna di Teodoro no.
    Quell’uomo era diverso.
    “Grazie davvero…” sussurrò con voce emozionata e libera. Aveva apprezzato la mia gentilezza.
    Senza dire altro, scesi dall’auto e attraversai la strada deserta zoppicando.
    Dovevo nascondere la zoppia almeno a Massimo, mi dissi. Non che ci fosse una ragione in particolare; probabilmente, non volevo che pensasse che ricorressi a lui solo perché mi trovavo in quelle condizioni pietose.
    Quindi, come preparandomi, mi obbligai a camminare piano. Sorrisi per tutto quell’inutile impegno. Più mi avvicinavo, più mi sentivo al sicuro.
    Arrivato alla porta della sua casa illuminata, bussai emozionato. Quando mi aprì, guardare il suo volto mi commosse. Mi ricordò la mia precedente vita, prima di tutto questo. A stento trattenni le lacrime, ma Massimo noto sicuramente i miei occhi luccicanti.
    “Nicolò? Che ci fai qui?” chiese sorpreso.
    “Ti ho mentito…” riuscì a dire mordendomi le labbra. Non ci vedevo più.
    “Di cosa parli?” fa lui preoccupato.
    Non riesco ad andare oltre.
    “Su entra…” e mi passo timidamente la mano dietro la schiena, spingendomi con eccesso di tatto verso casa.

    -

    Ero seduto vicino al fuoco caldo del camino, sprofondato su una comodissima poltrona bianca. Tra le mani tenevo una camomilla preparata apposta per me. Mi sentivo come un bambino con il suo papà.
    “Capisco… Ma lo immaginavo” sentenziò lui in tono grave.
    Lo guardai corrucciato. Non si stava sopravvalutando? Non commentai
    Massimo guardò la mia espressione e sorrise. Come leggendomi negli occhi disse:
    “Lo so, lo so… Ti sembrerà di no, ma è una cosa normale… Sai quante persone non lo fanno… Non denunciano per paura…”.
    “Quale paura? Ti ho spiegato i miei motivi” lo interruppi un po’ infastidito. In realtà, non mi sentivo così libero da molto tempo, come se mi fossi tolto un macigno dalla schiena. Ma sapevo che era ancora troppo presto per esultare.
    “E non è lo stesso? I tuoi motivi… Tutti ne hanno…”.
    “Cosa facciamo?” chiesi, cercando di tornare al dunque.
    Massimo mi scrutò un attimo, poi riprese:
    “Tu niente… Hai già pagato abbastanza. E non dovevi… Ridurti così… E’ anche colpa mia…” commentò guardando in basso. Quando però riprese, non staccò più i suoi occhi marroni dai miei.
    “Sei sicuro che questa persona canterà? Sarebbe la chiave del successo”;
    “Sì”.
    “Sei sicuro di poterti fidare? Stiamo parlando di un doppiogiochista…”.
    “Possiamo” risposi convinto.
    “Domani può venire in centrale?”;
    “Penso di sì…”.
    Massimo inspirò profondamente:
    “Bene. Nicolò, lasciami organizzare. Per il momento aspettiamo fino alla mattina, quando anche gli alti ufficiali saranno in ufficio. Non allerterò nessuno prima dell’alba. Evitiamo di insospettirli…”.
    “Di che parli?”.
    “Spie… So di chi posso fidarmi e chi no. Ma ho bisogno di farlo direttamente. Eviterò ogni intermediazione”.
    “D’accordo… Domattina…”.
    “Sei d’accordo? Possiamo aspettare?” chiese.
    “Penso di sì…”.
    “Qualcuno sospetta di te? Ti sta seguendo?”.
    “Nessuno… Da un po’” risposi certo.
    “Allora facciamo come dico…”. Massimo si alzò in piedi.
    “Ti accompagno a casa”.
    “Non mi serve” declinai.
    “Sei in auto?”;
    “Sì” mentì.
    “Ok”. Massimo mi accompagnò alla porta. Prima di salutarmi, mi strinse un po’ troppo forte la spalla. Era un gesto affettuoso, ma m’infastidì. Non volevo essere trattato come un bambino, tantomeno come un caso umano. Ma evitai di piagnucolare per niente.
    “Ci vediamo domani. Facciamo alle dieci” mi raccomandò.
    “Sì!” risposi scocciato e facendo in modo di farmi notare. Mi sembrava di essere tornati ai tempi delle nostre discussioni all’ufficio, con io nella parte dell’inserviente negligente.
    Massimo mi sorrise divertito.

    -

    Quel mercoledì mattina, mi svegliai a casa mia. Fu il campanello a scuotermi da quel torpore.
    “Posta…” sussurrai con voce stanca.
    Dopo che Teodoro mi aveva lasciato a casa con l’impegno di trovarci direttamente davanti all’ufficio di polizia, ero andato a coricarmi. Ma ero così teso e così intrepido da non riuscire a batter ciglio. Solo verso le cinque di mattina mi colpì un sonno leggero e privo di sogni e, quando mi svegliai di soprassalto, ero più stanco di prima e anche più demotivato.
    Scalzo, in slip e canottiera, mi accinsi ad aprire le scale. Sapevo che, a quell’ora, tutti i miei vicini erano a lavoro. Solo io ero uno studente.
    Se la notte ero euforico all’idea di incastrare Alfredo, ora ne mettevo in risalto tutti gli aspetti negativi. A partire dal processo, il quale, pensai, sarebbe stato lungo, specialmente se qualcuno avesse esitato e le prove non fossero risultate schiaccianti. Alfredo, avevo imparato a mie spese, era un uomo dalle mille risorse. In secondo luogo, mi aspettavano se non spese, visto che sarebbe stato chiamato in causa il pubblico ministero e io sarei stato parte lesa e testimone, quanto meno lunghi periodi di inquietudini e minacce. Se Alfredo poi fosse stato con le spalle al muro, non c’era da immaginare come avrebbe potuto comportarsi. Sarebbe stato capace di trascinarci tutti nel baratro. E per me voleva dire una cosa soltanto: i video. Per quanto mi fossi abituato all’idea, cosa sarebbe stato per Jury, Davide, Flavio, Luca, Thomas e altre persone passate nelle mani del pappone? Per quanto ancora poco me ne preoccupassi, ero convinto che per molti di loro vivere poteva solo significare protezione testimoni e cambio d’identità.
    Il citofono suonò.
    “Arrivo, arrivo…”.
    Premetti l’interruttore e aprì da basso senza rispondere al citofono. Quindi, decisi di buttarmi a letto ancora un oretta.
    Ma, quando fui a metà strada, il citofono suonò ancora. Non mi ero accorto che il suono era quello del mio campanello.
    “Nico…” sentì sussurrare da dietro la porta. Era una voce che ben conoscevo.
    Aprì.
    “Che ci fai qui? Abbiamo detto che ci trovavamo direttamente lì” senza guardare dallo spioncino, accolsi Teodoro strofinandomi l’occhio destro con la mano.
    Teodoro sorrise.
    “Hai ragione, ma… Mi sentivo un po’ nervoso… Volevo vederti subito…” disse con voce calma.
    “Posso entrare?”.
    Gli feci spazio.
    “Cosa c’è?” chiesi comprensivo.
    “Facciamo un bagno insieme?” domandò con la stessa voce stridula di un bambino. Cosa che mi divertì.
    “Non puoi dirmi qual è il problema?” domandai sorridendoli.
    Teodoro entrò e io chiusi la porta al suo passaggio.
    “Non è che ci sia un problema in particolare… Voglio solo rilassarmi. Stiamo un po’ insieme…” disse dandomi le spalle e guardandomi attorno.
    “Andiamo in vasca?” domandò voltandosi di profilo.
    “In vasca?”;
    “Sì”.
    “La mia vasca è piccola, ha la ruggine. Non la uso mai. Fa schifo…”.
    “Mi bastano queste…”. Si girò, mostrandomi i polsini che si era tolto dalla tasca del giaccone.
    “Teo… No…” dissi guardandolo perplesso e preoccupato. Sembrava così tranquillo e le cose volgevano per il meglio. Che bisogno c’era?
    Teodoro come intuendo quello che pensassi, si affrettò a dire:
    “No, no, no… Non è come pensi… Solo queste… Non ho altro” fece girandosi le tasche, prima del giaccone e poi dei jeans.
    Lo trovai quasi tenero, scrutandolo comicamente sopraccigliato dal basso verso l’alto. Stavo addirittura pensando di poter davvero avere un rapporto umano con quella persona.
    “Solo il bagno… Ho voglia solo di… Coccolarci un po’…” e, nel dirlo, arrossì.
    Anch’io ebbi la sua stessa reazione.
    “Ok… Andiamo…” sussurrai pur di togliermi dall’imbarazzo.
    “Facciamo presto però” lo ammonì.

    -

    Lasciai a Teodoro il controllo.
    Alcuni minuti dopo, quando la vasca fu piena quasi fino all’orlo, ci spogliammo, l’uno togliendo gli indumenti dell’altro. Il primo a rompere la superfice dell’acqua fu Teodoro. Questi si sistemò alla bene e meglio nel piccolo spazio e, quando si sentì soddisfatto, mi fece cenno di raggiungerlo.
    “Te l’avevo detto che faceva schifo” commentai ancora imbarazzato, rispondendo a non so quale commento.
    Teodoro si limitò a sorridermi. Con un cenno della testa, m’invitò a entrare dandomi la schiena. E così feci.
    Quando fui sopra di lui, mi appoggiai al petto con il dorso, lasciando che il sedere si adagiasse sui suoi genitali. Per mia sorpresa, il suo membro non era in tiro.
    Con molta delicatezza, questi mi strinse calorosamente sul petto con le braccia, accarezzandomi con le dita.
    “Passami il bagnoschiuma” mi sussurrò all’orecchio.
    Quando glielo passai, ne prese un po’ e me lo passò sui capelli; come nulla fosse, cominciò a strofinarli.
    “Fa piano” lo pregai istintivamente. Non amavo farmi toccare i capelli; ci tenevo moltissimo.
    Teodoro continuò come nulla fosse; ne aveva messo così tanto che presto diventai un cespuglio bianco. Senza farlo apposta, mi aveva ciecato sugli occhi, ma, senza dire nulla, mi sciacquai.
    Poco dopo, Teodoro mi fece alzare, con l’intento di detergermi tutto il colpo.
    Non ero tanto voglioso, ma, troppo stanco per ribattere, mi alzai in piedi, lasciando colare l’acqua limpida dal mio corpo.
    Teodoro mi guardò ammirato, poi, con sguardo serio, mi girò e rigirò, insaponandomi con meticolosa attenzione. In estremo imbarazzo, non avevo il coraggio di guardarlo.
    Quello sguardo famelico un po’ mi deprimeva, ma ero stupito da tanta cura ai particolari. Nessun punto fu dimenticato: collo, ascelle, mani, scapole, gomiti, ombelico, genitali, ginocchia, dita e palmi, talloni e piante dei piedi. Nulla di nulla. Infine, con un attenzione ancora più maniacale, si concentrò sul mio fondoschiena, passando tra le natiche e affondandomi anche l’indice prima e il medio poi nel retto per pulire anche dentro. In silenzio, divaricai leggermente le gambe per lasciarlo passare.
    Quando Teodoro terminò, mi sentì privato di ogni pudore. La sua mano era passata con così tanta passione che sembrava aver lasciato una scia di energia e calore su tutto il mio corpo. Ecco perché, a disagio più che in imbarazzo, mi offrì per fare altrettanto.
    “Non serve… Vieni qui…” fece aprendo le braccia.
    Gli sorrisi, m’inginocchiai e infine lo abbracciai, stringendolo sotto le ascelle e posando la testa sul petto. Mi sarei aspettato di sentire un battito forte e veloce. Invece, le pulsazioni erano quasi ordinarie. Teodoro si stava davvero rilassando.
    “Girati” mi sussurrò dolcemente sorridendomi. Eseguì.
    Teodoro mi abbracciò come prima, ma stringendo più forte.
    “Teo… Così mi stritoli” dissi ridendo.
    “Scusa…” rispose pacatamente.
    “Passami le mani” ordinò.
    “Perché?” chiesi, consapevole delle sue intenzioni.
    “Perché mi piace…” disse con poco impegno, sapendo che non mi sarei impuntato.
    Quindi, spostai le braccia dietro la schiena, mentre Teodoro prendeva i polsini appoggiati sul bordo del lavandino a sinistra. Dopodiché gli passò sotto l’acqua, agganciandoli. Infine, si limitò a piegare le braccia dietro la testa, adagiandosi tranquillo.
    “Non si rovinano?” mi preoccupai guardando al soffitto.
    “Ne ho degli altri” rispose.
    “Ok… Vediamo di far presto… Che vuoi fare?” domandai.
    “Niente… Ti ho detto… Voglio solo che li tenga” si giustificò.
    “Va bene…” dissi, poi insistetti: “Vediamo di non stare troppo. Gli ho detto alle undici…”.
    “Massimo hai detto? Massimo Meggi?” mi domandò lui ignorandomi.
    “Sì, perché?”.
    “Così…” rispose dopo un poco.
    “Dai…”;
    “No… Niente…” disse ancora, prendendo una lunga pausa.
    Piegai la testa, appoggiando l’orecchio sinistro sul petto villoso.
    “C’è qualche problema?”.
    “No… Solo che non penso dobbiamo affrettarci per forza” si giustificò.
    “Sì che dobbiamo. Glielo promesso… Non hai mica paura?” domandai sorridendoli.
    “No che non dobbiamo” insistette con più foga, ignorando la mia domanda.
    “Ti dico che non dobbiamo…” ripeté. Poi fece una pausa:
    “Dopo di noi, ha ricevuto una visita da Jack… Non ci aspetta!” disse di un fiato.
    Ancora prima di comprendere il contenuto della frase, sulla mia testa vibrò un suono leggero. Poi la vista fu stranamente lucida. Teodoro mi aveva infilato in un sacchetto di nylon.
    Fu un lampo; la cerniera sul mio collo si ridusse, stringendomi sull’epiglottide. Dopodiché, Teodoro mi strinse in una morsa potentissima e animalesca.
    “Non ti agitare… Passerà presto… Mi spiace!” disse altrettanto velocemente.
    Non ci credevo ancora che una persona stesse tentando di uccidermi. A me?
    “Non doveva finire così!” continuò.
    Per un paio di secondi quasi gli credetti, poi sempre più accaldato, cominciai ad agitarmi, ma notai che a malapena mi spostavo. L’aria si fece sempre minore, la mia testa pulsante come il mio cuore e, allo stesso tempo, leggera. Istintivamente, cominciai ad agitarmi di più, ma vanamente. Dondolavo inutilmente a causa dell’acqua, mentre il corpo di Teodoro era troppo viscido per essere agganciato dalle mie inesistenti unghie. Battei anche i piedi, ma senza conseguenze, quindi cercai di prendere i suoi genitali da ammanettato, ma Teodoro si era già spostato all’indietro. Tutto questo accadde in una manciata di secondi.
    Non sapevo che fare. Ero spaventato, consapevole che presto avrei perso le forze.
    Era davvero finita? Sarebbe finita così?
    Persi il desiderio di lottare, trovando anche spazio di riflettere.
    Che senso aveva dopotutto? Per sfuggire al bordello, avevo fatto cose indicibili. Indicibili quanto lavorare al bordello, se non di più… E allora perché?
    Anche Massimo.
    E bastò per inondare il mio corpo di rabbia.
    No! Io ero più forte di Teodoro! Non sarebbe finita così!
    Come in preda a istinti sconosciuti, ricominciai a dimenarmi con una forza ben diversa da prima. Pensai che tutto ciò che mi era possibile era colpirlo con gomiti e polsi, visto che questi erano ammanettati. Avrei fatto di necessità virtù; e così feci: Teodoro, che non aveva ancora avuto il tempo di sfilarmi da sotto, prima fu nuovamente bloccato nel tentativo di tenermi stretto, poi colpito a tutta forza al torace.
    Quando riuscì a colpirlo con il gomito destro una prima volta, facendolo sobbalzare, potei replicare una seconda, con entrambe i gomiti; una terza e, infine, una quarta colpendo anche con le manette all'addome.
    “Ah!” urlò Teodoro sorpreso da tanto furore.
    Finalmente, ansimante, con la busta attaccata alla bocca, pochissima aria e la vista annebbiata, riuscì a girarmi, alzandomi in piedi.
    Non ebbi tempo di esultare, perché Teodoro fu su di me. Senza potermi proteggere con le braccia, fui facilmente scaraventato sul bordo vasca, riuscendo solo a girarmi e cadendo di schiena. La caduta fu attenuata dall’acqua, ma Teodoro mi fu sopra.
    Senza pensarci, con un gesto irriflesso che sorprese me quanto lui, lo colpì di testa. Praticamente cieco, mi stupì per tanta precisione. Il colpo fu ammortizzato dalla plastica, però entrambi percepimmo forte il dolore. Mentre a me pulsava solo il punto sulla fronte con cui l’avevo colpito, questi parve tramortito e inerme, tanto da svenire.
    Da quando possedevo tutta quella forza? Doveva essere il rancore provato per tutto quel tempo nei suoi confronti. Ma, in quelle condizioni, ammanettato e con la testa sigillata in una busta, non mi restava che scappare.
    Mi alzai una seconda volta; fui ingenuo: convinto di aver messo K.O il mio aguzzino, decisi di uscire dalla vasca senza assicurarmi di indietreggiare. Teodoro infatti, quando passai il piede davanti alla sua faccia, pronto a issarmi per scavalcare il bordo vasca, con un balzo felino uscì dal falso torpore e prese entrambe le caviglie. Con violenza le tirò di lato; Scivolai in vasca e, questa volta, gli fui sotto. Con un salto, Teodoro mi salì sul fondoschiena, cercando di trattenermi faticosamente a fondo.
    Ero quasi al limite. Non avevo più aria, mi mancavano le forze e sentivo male ovunque. Se mi fossi arreso, sarei morto. Me lo ripetei, per darmi forza, ma trovai solo quella per piangere.
    “Smettila… Smettila di resistere!” fece lui rabbioso. Esattamente come il giorno prima. C’era però una nota diversa nella sua voce; questa volta, stava davvero faticando. Più del previsto.
    Lo sentì porgersi verso qualcosa sul lavandino.
    Che cercava? Non ci vedevo in quella posizione. Ma poi riflettei e ricordai; prima di entrare in acqua, quando ancora stava aspettando che questa si scaldasse, mi aveva chiesto di lasciare il phone sul lavandino per dopo. E invece, gli avevo consentito un piano alternativo.
    Avrei dovuto rallegrarmi per averlo costretto a quella soluzione? Era meglio di no. Non avrei avuto modo di gioirne.
    Tutti quei pensieri, anche i più futili, vorticavano nella mia mente uno dietro l’altro. Fino al momento che arrivai a pensare che, per attuare quell’opzione, avrebbe dovuto perdere molto tempo. Era davvero un idea stupida; come faceva a non essersene reso conto?
    Rinvigorito da questa consapevolezza, ripresi a dimenarmi con vigore.
    Teodoro, esasperato, finalmente ci arrivò; capì che stesse rinunciando a quell’idea quando smise di allungarsi. Digrignò i denti così forte da riuscì a sentirlo anche durante quella concitazione . Per mia enorme sorpresa, mi strappò via la busta.
    Mi sembrava di essere tornato alla vita.
    “Aaa…” boccheggiai disperato, ma fu un momento. Inspirai con scarso successo.
    Teodoro mi strinse i lunghi capelli nella mano e, con una forza brutale, mi sollevò per schiacciarmi la testa di prepotenza sul fondo della vasca.
    Sentì un suono sordo e un dolore lancinante alla fronte. Cercai di dimenarmi.
    Salì nuovamente in aria, poi un nuovo colpo mi sfondò la tempia. La testa mi parve pesantissima e un ronzio fastidioso mi rese praticamente sordo.
    Inerte, fui librato in aria ancora una terza volta e una terza volta spinto in giù. Quasi non senti i danni aggiuntivi. Con un ultimo, faticoso sforzo, sollevai il collo uscendo con la faccia dall’acqua. Il sangue scese sotto il sopracciglio, accecandomi l’occhio destro. Solo fare ciò richiedeva ogni energia, che ormai non possedevo. Crollai a peso morto sull’acqua, galleggiando a mezza bocca e con il viso piegato sulla guancia sinistra.
    Teodoro, in piedi dietro di me, ansimava stancamente. Si era accorto ormai della mia fine imminente e aveva lasciato la presa.
    Vidi la sua ombra uscire dalla vasca; ora in piedi nel mio bagno. Questa s’inclinò per riprendere fiato.
    “Ora vedi di smetterla... Idiota!” sbraitò dopo un lungo respiro.
    Lo guardavo senza vita. Era davvero finita… Sarebbe finita così… Due mesi di sofferenze e per cosa?
    Maledetto il giorno in cui entrai al bordello. Se avessi rifiutato, se avessi accettato il mio iniziale astio, avrei evitato tutto quello. O forse no?
    “Dovevi essere mio! Solo mio! E invece no! Hai scelto con il cazzo!”.
    “Che…” sussurrai debolmente, ma non avevo più forze. Non ero certo di essere stato in grado di articolare neanche quella parola.
    Teodoro tornò nella vasca. Immobile, cercai di ruotare gli occhi agli indietro per seguirne gli spostamenti, ma non vidi altro che acqua rossastra attorno al mio viso.
    Teodoro si era chinato sul mio orecchio, perché sentì vicino il suo mormorio.
    “Non è stato Alfredo… Io sono stato a inviare quei video… Soltanto io”.
    Non ebbi reazione. Perché non l’avevo neppure considerato?
    “Così avresti potuto fare la mossa giusta” disse: “E invece… Hai voluto fare di testa tua….”.
    Stavo perdendo i sensi. Dovevo aver perso troppo sangue o il mio cranio doveva aver ricevuto danni ingenti.
    “Se mi avessi ascoltato! Sarebbe stato diverso!” continuò.
    Non aveva più senso ascoltarlo. Erano i miei ultimi momenti, tanto valeva dedicarli a me stesso.
    Non volevo morire.
    “Ti…” cercai di pronunciare.
    “Ti prego”. L’avevo detto? No, era solo nella mia testa. Non mi sarei più alzato.
    “Come potevi pensare che avrei rinunciato a tutto? Come se m’interessasse qualcosa di fare giustizia…” proseguiva con voce maligna. La sua voce sempre più distante era tornata quella di sempre. Che attore superbo.
    Sentì pizzicare.
    “Quando mai c’è stata giustizia per me…”.
    Sprofondai in un silenzioso buio. Ebbi un fremito. Stavo soffocando; dovevo essere sott’acqua. Poi fui accecato nuovamente dalla luce del bagno.
    “L’idea era quella di un gesto estremo... Avrebbero pensato a un romantico suicidio d’amore. Certo, un po’ stupido ma credibile… Vorrà dire che faremo così… Sei scivolato nella vasca e hai battuto la testa. Sei svenuto…” e il restò non lo sentì. Non sarei più ricomparso.
    Teodoro borbottava.
    Tirami su, fammi sentire.
    Niente.
    Non poteva essere vero, non ci credevo ancora.
    Rantolai un poco, mi dimenai per istinto più che per disperazione. Soffocando, chiesi aiuto nella mia testa.
    Ma questa si faceva sempre più leggera. Sentivo i miei polmoni dolermi, ma la testa… Era come se fosse vuota.
    Non era così male. Forse era una buona idea.
    Anch’io finalmente ero libero.

    Edited by ancient lover91 - 24/4/2017, 13:45
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