Gay Boys Reloaded

Posts written by ancient lover91

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    Easy... Jensen Ackles
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    :D :D :D :D :D :D :D :D :D :D :D

    Sto gioco si è arenato :rolleyes:
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    CITAZIONE (Rollo97 @ 24/7/2017, 21:24) 
    CITAZIONE (ancient lover91 @ 24/7/2017, 21:18) 
    One piece o One punch?

    Fino a qualche tempo fa avrei detto one piece... Ma One punch man lo trovo meraviglioso!
    Anzi grazie x avermelo consigliato ^_^ ^_^

    Libro o film?

    Troppo difficile... Sarò banale: il libro è più appagante, ma il film ti rimane impresso.

    Harry Potter o Twilight?
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    CITAZIONE (Rollo97 @ 24/7/2017, 21:15) 
    Giapponesate o americanate?

    Assolutamente giapponesate...
    One piece o One punch?
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    CITAZIONE (LuckyBoy @ 8/7/2017, 18:33) 
    Nuova sfida veloce... per i talentuosi amanti del posteriore maschile ecco uno che "vale doppio" e qui risiede sempre l'indizio iniziale...

    Godetevi la vista e giocate !!!!



    Vediamo se basta questo :P

    Per esempio questa è praticamente impossibile... Ci sei andato cattivo qui con un culo e zero aiuti :rolleyes: :lol: <_< :blink: :wacko: .

    Diciamo che vuoi che sbagli per forza.... E vabbè proviamo... In genere ci dai profili di uomi internazionali fighi, di solito attori... Quindi proverei... Taylor Lautner... :cry:
  6. .
    CITAZIONE (LuckyBoy @ 8/7/2017, 18:16) 
    CITAZIONE (ancient lover91 @ 8/7/2017, 18:07) 
    Benjamin Barnes

    Esatto !!!!! Sei davvero bravo, complimenti... :woot: oppure le faccio troppo facili. :P Si tratta proprio di Ben Barnes nome completo Benjamin Thomas Barnes ovviamente l'ultimo Dorian Gray visto al cinema, ecco la foto intera:



    Cavolo che bel ragazzone :wub: ... aspetto di rivederlo presto, ci sono rumors che lo vogliono come principale villain nella prossima serie Netflix dedicata al Punitore, sono davvero curioso !!!

    Ancora complimentoni ancient lover91 alla prossima !!!!!

    Grazie... Ma non direi proprio che sono troppo facili! Anche perché se fossero facili non mi divertirei a giocare :P.
    Insomma, sono io che sono bravo :D
  7. .
    CITAZIONE (LuckyBoy @ 8/7/2017, 17:48) 
    Stavolta primo tentativo a vuoto Michael Barret Watson gran figo ma è americano e in più ti aggiungo che il personaggio misterioso è più giovane (anche se di soli 7 anni) ... altro indizio oltre ai ruoli principeschi ha anche assunto il ruolo (al cinema) dell'immortale più famoso della letteratura inglese...

    Benjamin Barnes
  8. .
    CITAZIONE (LuckyBoy @ 8/7/2017, 16:15) 
    CITAZIONE (ancient lover91 @ 6/7/2017, 12:30) 
    Subito devi andare a pensare male :P
    Devo dire che senza gli aiuti non ce l'avrei fatta :rolleyes:

    Intanto ne propongo una io. Ecco l'immagine:

    jpg


    Questo è il vestito da eroe di un personaggio principale di cartone animato/anime/seinen o come preferite chiamarlo. Molto semplice per gli appassionati: di chi si tratta?

    Ahahahah il Grande Maestro Saitama di ONE PUNCH MAN divertentissimo manga e anime !!!!!

    Con una Opening trascinante da paura !!!

    www.youtube.com/watch?v=atxYe-nOa9w

    Stupenda !!!!!


    Ora mi riprendo il turno ed ecco il mio nuovo bello e misterioso... inizio dicendovi che è inglese anche lui e che ha nel cinema dei trascorsi "principeschi"... la foto e il resto dopo i primi tentativi se ce ne fosse bisogno...



    Coraggio tentate !!!!

    Bravo bravo bravo ^_^ ^_^ ^_^
    Hai detto tutto: opening stupenda, così come le soudtrack dell'anime e l'anime in sé.

    Uhm... Questa volta vado a tentoni e provo Michael Barret Watson :D
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    CITAZIONE (LuckyBoy @ 6/7/2017, 00:00) 
    Però ancient lover91 devo rinnovare di nuovo i miei complimenti, sei un bravo fisionomista o un buon inteditor ci chiappe :lol: ... E' proprio il bel Channing Tatum, oggi molto più palestrato ma comunque un bravo ballerino. Ovviamente gli indizi si riferivano a Step Up di cui Channing era il protagonista e ovviamente a Magic Mike. Eccolo in una foto del periodo del primo dei film citati:



    A presto con un nuovo personaggio misterioso... ;)

    Subito devi andare a pensare male :P
    Devo dire che senza gli aiuti non ce l'avrei fatta :rolleyes:

    Intanto ne propongo una io. Ecco l'immagine:

    jpg


    Questo è il vestito da eroe di un personaggio principale di cartone animato/anime/seinen o come preferite chiamarlo. Molto semplice per gli appassionati: di chi si tratta?
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    CITAZIONE (LuckyBoy @ 3/7/2017, 19:10) 
    CITAZIONE (ancient lover91 @ 3/7/2017, 14:14) 
    Jamie Campbell Bower, il giovane Grindelwald :)

    Bravo ancient lover91 è proprio Jamie Campbell Bower (sei un patito di Harry Potter a quanto vedo)... per quanto riguarda gli altri indizi era uno dei Volturi nell'ultimo film della saga di Twilight, mentre la serie TV con lui protagonista era Camelot con il bel Jamie nel ruolo di Artù (...e che tra l'altro, scopava come un riccio ahahah :P )

    Ecco la foto integrale:



    Ancora Bravo ad ancient lover91 !!!

    Pronti per il prossimo questito?

    Troppo Gentile :D

    CITAZIONE (LuckyBoy @ 3/7/2017, 19:49) 
    ...Eccoci per il nuovo quesito, stavolta più facile non si può, almeno credo...

    Stavolta la foto è intera e senza tagli, ma molto piu giovane rispetto a come è conosciuto ora, come si evince dallo scatto ha un passato da modello, aggiungo che è un bel manzo di 37 anni dell'Alabama (USA) e che ora è un attore affermato.



    Coraggio buttatevi !!! ...e scometto che non serviranno aiuti stavolta ahahah

    Non ne sono sicurissimo, ma proverei con Channing Tatum
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    Jamie Campbell Bower, il giovane Grindelwald :)
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    Non serve una motivazione:
    Voto 10
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    CITAZIONE (Rollo97 @ 5/5/2017, 14:04) 
    Per casa sì ^_^ , in giro no, solo se ho dimenticato il cambio dopo calcio :cry:

    :lol:

    CITAZIONE (Rollo97 @ 5/5/2017, 14:04) 
    Cos'hai risposto la prima volta che ti hanno detto ti amo?

    La prima volta che mi hanno detto "ti amo" mi pare sia stato in prima media. Ero così imbranato che ho risposto: "Ne prendo atto".

    Uhm... Ti piace la fica?
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    CITAZIONE (Rollo97 @ 5/5/2017, 14:21) 
    Ma davvero finisce così? :unsure: :unsure: :(
    Intanto ti faccio i complimenti..... i tuoi racconti sono davvero tra i più belli... praticamente m hai tenuto incollato come fosse una serie tv :P
    Però, chiuderla così... secondo me va continuata, magari usando altri personaggi come protagonisti. Per esempio, mi sembra un errore quello che hanno fatto a Massimo..... può essere ribaltata la cosa.
    Comunque lo scrittore sei tu... Vai avanti! :D :D

    Intanto grazie a te, ma anche agli altri che hanno commentato. E un grazie anche per chi ha letto e non si è espresso!
    Dici di continuare... Guarda,non avrei mai detto di riprenderlo dopo circa 5 anni; quindi ti dico che non si sa mai. Magari domani, fra un mese o fra un anno mi viene un epifania... Non mi dispiacerebbe, visto che mi sono divertito. Semplicemente già lo ritengo lungo così e per una volta vorrei lasciare "vincere" il villain ^_^ ^_^
  15. .

    ATTENZIONE
    CONTENUTO EROTICO E SESSUALE
    QUESTO RACCONTO NON E' ADATTO AD UN PUBBLICO MINORE DI 18 ANNI
    SE SEI MINORENNE TI INVITIAMO A LASCIARE IMMEDIATAMENTE QUESTA PAGINA



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    NASCITA DI UN ADOLESCENTE


    Ultima parte

    Dopo quel giorno, incominciò per Stefano un tempo pieno di tormenti. Quello che aveva appreso era troppo più di quanto potesse sopportare. La verità delle cose lo opprimeva e avvelenava la qualità delle cose, considerata quanto massiccia fosse la loro importanza. Gli era sembrato che, dopo tutte quelle rivelazioni, il rapporto con la madre avrebbe dovuto risolversi come d’incanto; invece, quel malessere e quelle ripugnanze permanevano, rese ancora più intollerabili dal rispetto familiare. Ciò che Stefano ricercava, era scorgere in sua madre gli stessi sentimenti d’ammirazione che provavano il Gaggio e gli altri; solo così ogni infelicità sarebbe scomparsa. Quindi, questi ricercava qualche occasione perché questo potesse accadere.
    La madre, come in passato, non si nascondeva, non avvertendo negli occhi del figlio il cambiamento; e impudica, pareva a Stefano che quasi lo provocasse. Come quando lo chiamava a sé, ritrovandola seminuda o quando al risveglio mattutino si chinava per darli un bacio. Ben presto però si accorse che, più che mai donna, essa fosse più che mai madre, e un senso di vergogna prendeva il sopravvento del ragazzo. Non poteva questi separare il nuovo concetto che aveva di lei dal ricordo ferito dell’antica dignità.
    Stefano non metteva in dubbio che tra lei e Renzo corressero dei rapporti almeno preliminari a quelli di cui avevano parlato i ragazzi della banda. Poche volte gli capitava di accompagnarli in mare, perché si premurava di sfuggire a quegli inviti; ma tutte le volte, Stefano si accorgeva di studiare il giovane quasi con il desiderio di vederlo superare i limiti della solita urbana galanteria, e così la madre. Solo per avere prova dei suoi sospetti e riuscire a capire ciò che ancora gli rimaneva di quelle cose.
    Dall’antica innocenza, Stefano era passato non a una condizione virile, serena e consapevole, bensì a uno stato confuso, ibrido, in cui antiche ripugnanze si aggiungevano a nuove. Perché era così? A volte si chiedevano come facessero gli altri ragazzi più grandi ad amare la propria madre e al tempo stesso sapere ciò che lui sapeva. Che cambiamento era intercorso a loro e che a lui ancora non riusciva?
    Per tutto questo, la casa gli era diventata insopportabile. Almeno al mare, la presenza di tante altre persone lo distraevano. Stefano scrutava con un attenzione nuova i comportamenti di ragazzi e ragazze, uomini e donne, quasi cercasse di dare un nuovo significato alle loro gesta, anche le più innocue, specialmente se queste si manifestavano in una comunicazione con altri, dello stesso o del genere opposto. In spiaggia, la madre era un corpo tra altri corpi; a casa era l’unico e ogni suo gesto o parola pareva acuirsi assumendo un significato straordinario. Durante l’infanzia, i corridoi, i ripostigli, le stanze, erano stati per Stefano luoghi mutevoli e sconosciuti, così mistici da vivere come in un avventura, dove fare le più curiose scoperte e vivere fantastiche vicende. Ora, la fantasia della casa era sostituita da altre vicende, di un fervore oscuro e di cui Stefano non capiva se lo attirassero o meno. Non c’era più gioia, sorpresa e desiderio nelle presenze di mobili, pareti e oggetti; l’esuberanza fanciullesca, la fantasia, era ora impregnata dalla realtà, così pesante e senza fascino. A volte, Stefano si destava nella sua stanza chiedendosi se Renzo non fosse addirittura dall’altra parte; certi rumori ne alimentavano il sospetto, altri lo dissipavano e, alla fine, si ritrovava in pigiama nel corridoio, davanti alla porta della madre ad ascoltare e spiare. Una volta persino non riuscì a resistere alla tentazione ed era entrato senza bussare. Restando immobile nel mezzo della stanza, bianco del riflesso della luna, come uno spettro s’era messo a fissare il letto alla ricerca di chissà quali indizi tra i capelli corti e neri della madre e le sue forme delicate e forti avvolte da una leggera vestaglia.
    “Sei tu Stefano?” gli aveva domanda questa preoccupata. Ma senza dir una parola, questi era scomparso in fretta nella sua stanza.
    E tutto quello, non sapeva di preciso come, lo spingeva a frequentare sempre più la compagnia dello stabilimento Vespasiano. Ma qui, altri e diversi tormenti lo aspettavano, rendendo quel luogo non meno ostile della casa. L’atteggiamento degli altri ragazzi nei suoi confronti non modificava, anzi, aveva preso un aspetto definitivo, basato su convinzioni che apparivano giudizi incrollabili. Stefano, così come era per Ayele, era colui che aveva accettato quel noto favore al Gaggio e nulla pareva potersi fare per far cambiare questa credenza. Così, al primo disprezzo motivato dalla sua ricchezza, s’era aggiunto un altro fondato sulla supposta corruzione. Stefano riuscì con il tempo a unire quelle due sottili correlazioni tra le accuse e comprese oscuramente che pagava in tal modo un peso maggiore che Ayele. Vestiti migliori, agiatezza, gusto, linguaggio, educazione e superiorità morali, uniti al favore al Gaggio, aumentavano il ribrezzo dei compagni nei suoi confronti. Ribrezzo che, al contempo, aumentava in Stefano verso le abitudini e gli atteggiamenti dei ragazzi. Allora, più per suggestione dello stato in cui si trovava che per consapevolezza, Stefano divenne piano piano ciò che gli altri credevano che egli fosse, ossia del tutto simile a loro. Apposta prese a vestirsi più grezzamente, indossando i vestiti più logori, brutti e spenti che possedesse, per lo stupore di sua madre che non riconosceva più in lui l’antica vanità; smise di parlare delle sue ricchezze, ostentando di apprezzare mode e abitudini che tuttora lo inorridivano. Un giorno, a costo di dolore e fatica, al solito sbeffeggiamento per la sua gita con il Gaggio, dichiarò che, stanco di negare la verità, aveva realmente fatto ciò di cui lo accusavano e che lui non aveva difficoltà a farne racconto. Affermazioni che fecero trasalire il Gaggio, ma che questi guardò bene a smentire. Dapprima ispirò grande stupore, giacché i ragazzi non si aspettavano da lui, così timido e schivo, una pubblica confessione, poi diede vita a un fioccare di domande indiscrete sullo svolgersi dei fatti; qui non gli resse più l’animo e, rosso e sconvolto in viso, ammutolì d’un tratto. Naturalmente, i ragazzi interpretarono questo silenzio come un silenzio di vergogna e non di incapacità a mentire; e più pesante di prima gli ricadde addosso lo stesso fardello di beffe e disprezzo.
    Nonostante quel fallimento, Stefano era davvero cambiato; senza accorgersene, più per effetto del contorto sodalizio con i ragazzi che per volontà sua, aveva perso gli antichi gusti senza per questo sostituirne con dei nuovi. In qualche occasione, gli era capitato di ricercare i semplici compagni di giochi innocenti dello stabilimento Belvedere, con il quale aveva iniziato l’estate; non solo quei ragazzi ben educati gli parevano noiosi quanto i loro svaghi regolati dagli ammonimenti dei genitori, allo stesso modo gli parevano insipidi i loro discorsi legati alla scuola, alle collezioni di carte e figurine e le loro letture. Quelle avventure della banda, pur non coinvolgendolo né tantomeno apprezzandole, l’avevano reso insofferente alle antiche amicizie. Accadde un giorno che, giunto allo stabilimento Vespasiano, non trovò né loro, né il bagnino e, malinconicamente, andò a sedersi su un patino, guardando alla spiaggia con il desiderio di veder apparire almeno il Gaggio. Invece, ecco che s’avvicinò un uomo e un ragazzo di forse due anni più giovane di lui. L’uomo, piccolo, con le gambe corte sotto la pancetta sporgente, la mascella quadrata e un paio di lenti pesanti, pareva un impiegato o un professore. Il bambino, magro e pallido, in un costume troppo ampio per lui, stringeva al petto un pallone di cuoio tutto nuovo. Tenendo per mano il figlio, l’uomo s’avvicinò a Stefano con fare indeciso. Finalmente, scambiandolo evidentemente per il ragazzo dei mosconi, gli chiese s’era possibile fare una passeggiata in acqua.
    “Certo che è possibile” gli rispose Stefano senza esitazioni.
    L’uomo lo considerò con diffidenza, domandogli quanto costasse un’ora con il patino. Stefano, che conosceva i prezzi, glielo disse. Tutto ciò in qualche modo lo lusingava; era fiero, non sapeva spiegarsi perché, di essere considerato quel tipo di ragazzo.
    “Va bene, allora lo prendiamo” disse l’uomo.
    Senza farselo ripetere, Stefano prese il tronco di legno che serviva da rullo e lo andò a sottoporre alla prua dell’imbarcazione. Prese con le mani le punte del patino, raddoppiando lo sforzo per amor proprio, così curiosamente impegnato, spinse l’imbarcazione in mare. Infine, aiutò a salire il ragazzo e il padre, balzando lui stesso e impossessandosi dei remi.
    Stefano remava in quel mare calmo senza proferir parola; il ragazzo, stringendo il pallone al petto, lo guardava con i suoi occhi scialbi. L’uomo, girando intorno il capo, pareva godersi la passeggiata. Domandò alla fine chi egli fosse, se un garzone o il figlio del bagnino.
    Stefano rispose che era il garzone.
    “Quanti anni hai?”;
    “Tredici”.
    “Vedi” disse rivolto al figlio: “Ha quasi la tua età e già lavora”. Quindi a Stefano: “E a scuola ci vai?”.
    “Mi piacerebbe, ma come fare?” rispose recitando con lo stesso tono ipocrita che aveva visto adottare in molte occasioni dai ragazzi della banda.
    “Vedi, questo ragazzo non può andare a scuola perché deve lavorare… E tu ti lamenti se hai troppi compiti” disse nuovamente rivolto al figlio.
    “Siamo molti in famiglia e tutti lavoriamo” continuò Stefano.
    “E quanto puoi guadagnare in un solo giorno?” domandò l’uomo.
    “Dipende… Anche se viene molta gente…”.
    “Che naturalmente porti a tuo padre” lo interruppe lui, come se volesse toglierlo dall’imbarazzo di quella domanda che egli stesso si era permesso di fare.
    “Eh si certo… Ma se ricevo qualcosa di mancia cerco di tenerli per me”.
    Questa volta, l’uomo non sentì di ergerlo ad esempio al figlio, ma fece comunque un grave cenno d’approvazione. Il figlio taceva, intimorito da quei paragoni, ma anche interdetto tra una forma di rispetto e un altrettanto astio dovuto a quei fastidi che gli stava causando per mezzo del padre.
    “Ti piacerebbe possedere un pallone come questo?” domandò d’un tratto l’uomo.
    Stefano, che di palloni ne possedeva più di due e che giacevano da tempo in chissà quale stanza insieme ad altri giocattoli, tuttavia disse: “Certo che sì”.
    L’uomo si voltò verso il figlio e, più per gioco che per reale intenzione, disse lui: “Su Piero, cosa ne dici di dare il pallone a questo ragazzo? Glielo regali?”. Il figlio fulminò il padre, poi guardò Stefano con timore, quindi strinse più forte al petto il pallone senza dir nulla.
    “Non vuoi?” chiese il padre.
    “E’ mio…” rispose il figlio.
    “Perché non glielo lasci?”;
    “No…” sussurro lui.
    “Non si preoccupi!” intervenne Stefano con un sorriso fiero della sua umiltà.
    Il padre fece una smorfia di dispiacere, quasi premiasse il garzone per tanta dignità d’animo e si scusasse per l’avidità del figlio.
    “Non fai una bella figura” aggiunse accarezzando i capelli del figlio: “Avresti potuto darglielo… Ricorda… Quando le prossime volte vorrai fare i capricci, che ci sono ragazzi come lui… Che sono costretti a lavorare e sono più generosi di te”.
    “Ma è mio!” si giustificò il figlio.
    L’uomo sospirò profondamente, come si dispiacesse di quella testardaggine. Infine, guardò l’orologio, dicendo a Stefano che era il momento di voltare verso riva.
    Giunti sulla spiaggia, questi notò subito il Gaggio osservare con attenzione quello che stesse facendo. Stefano temeva che questi svelasse la sua finzione; invece il Gaggio non aprì bocca e anzi aiutò questi a tirare su il patino.
    “Questi sono per te” disse l’uomo porgendoli qualcosa in più dei soldi del viaggio. Stefano prese i soldi e gli portò al Gaggio.
    “Ma questi sono per me… La mancia…” soggiunse con consapevole e compiaciuta impudenza. Il Gaggio non disse nulla e, presi i suoi soldi, si allontanò verso la baracca.
    Quel piccolo incidente diede a Stefano la convinzione di non appartenere più al mondo in cui si trovavano i ragazzi come il figlio di quell’uomo e, comunque, di essersi così incanaglito da potersi ritenere parte convivente di quello stesso dei ragazzi della banda, che comunque non l’accettavano pur essi fosse simile a loro, o quasi.
    Non era però ancora come loro; non c’era altezzosità in Stefano che, anzi, avrebbe voluto non soffrire per le loro rudezze, le loro sguaiataggini improvvise e la loro ottusità. Stefano conservava ancora troppa delicatezza, a cominciare dal suo aspetto, per quanto essi si sforzasse di modificarlo così come il suo animo.

    -

    Un giorno di quell’estate, i ragazzi della banda e Stefano si recarono in pineta a cacciare uccelli e ricercare funghi. Tra tutte le prodezze, era quella che Stefano preferiva. Quel giorno, invece che prendere il solito sentiero che portava dritti al lungomare, inseguendo un beffardo passero che svolazzava tra i rami più bassi, dando l’illusione di essere alla portata di fionda, finirono per attraversare tutta la pineta, addentrandosi dietro le case della città. Sbucarono quindi nella piazza di un quartiere periferico. Immensa, la piazza, tutta sabbiosa e sparsa di mucchi di detriti e di rovi, presentava alcuni sentieri sparsi che portavano a isolati villini intorno alla stessa. Il cielo, spalancato nell’immenso quadrilatero, sembrava risaltarne il deserto squallore.
    I ragazzi attraversarono in diagonale la piazza camminando a due a due. A serrare le fila erano Stefano e Tortina; il primo portava due lunghe trecce di funghi, il secondo un paio di passeri penzolanti e sanguinosi.
    Come furono al limitare della piazza, Tortina diede una gomitata a Stefano, indicando un villino in particolare con tono allegro.
    “Vedi quello? Sai cos’è?”.
    Stefano lo scrutò, ritenendolo non dissimile dagli altri, se non un po’ più grande, con i suoi tre piani. La facciata era di un grigio tristo, con le persiane tutte serrate e nascoste in gran parte dagli alberi. Il giardino era piccolo e trascurato, le mura di cinta ricoperte di edera; attraverso il cancello si vedeva un breve viale tra due fila di cespugli e, sotto una vecchia pensilina, una porta dai battenti chiusi.
    “Non c’è nessuno in quel villino” concluse Stefano.
    “Eh nessuno…” commentò Tortina sghignazzando. In poche parole, spiegò all’altro chi ci abitasse. Stefano aveva già sentito parlare di quelle case dai ragazzi, dove lavoravano soltanto donne, chiuse giorno e notte, pronte per denaro ad accogliere chicchessia; ma era la prima volta che ne vedeva una. Rimase a fissare stupito quel viale e la vecchia pensilina, ripensando alle fresche parole del Tortina. In lui si ridestò lo stesso senso di stupore e stranezza provato la prima volta che ne aveva sentito parlare. E come allora non aveva quasi potuto credere dell’esistenza di una comunità dispensatrice indifferente di quell’amore che gli appariva così incomprensibile e lontano, così gli faceva ora cercare in quel villino e sulle sue mura le tracce di quell’incredibile vita che custodiva.
    “Ah si?” rispose Stefano fingendo disinteresse davanti al Tortina, mentre il cuore aveva preso a battere più in fretta.
    “Sì, è il più caro della città” aggiunse come cercasse di stupirlo, visto che egli credeva all’indifferenza che Stefano mostrava esteriormente. Quindi descrisse altri particolari, come il numero delle donne, la gente che lo frequentava e il tempo in cui ci rimaneva.
    Fingendo una noncurante e oziosa curiosità, Stefano mosse al Tortina numerose domande. Passato un primo momento di turbamento, un idea gli era spuntata nella mente e, ostinata, prendeva vitalità e forma a seconda delle risposte del ragazzotto. E così, chiacchierando con il Tortina, che appariva informatissimo, attraversarono il lungomare, finché Stefano non consegnò all’altro i funghi e si avviò verso casa.
    L’idea che gli era venuta era semplice, anche se oscure ne fossero le scaturigini: doveva, la sera stessa, andare in quella casa e conoscere una di quelle donne. Non era un desiderio, bensì una risoluzione fermissima e quasi disperata.
    Gli pareva che solo così avrebbe potuto liberarsi di quelle ossessioni che l’avevano afflitto in quell’estate. Conoscere una di quelle donne significava sfatare le calunnie dei ragazzi; conoscere una di quelle donne, voleva dire tagliare il sottile legame di sensualità sviata e torbida che lo univa a sua madre.
    Come poi sarebbe riuscito a penetrare e farsi ammettere, o come si sarebbe regolato a scegliere la donna con il quale appartarsi, di tutto questo Stefano non ci pensava, o meglio, non avrebbe saputo immaginarselo. Perché, nonostante le informazioni del Tortina, le abitatrici e le cose che succedevano lì restavano dense di un aria improbabile, come se si fossero concretizzate solo all’ultimo momento. Come un selvaggio non avrebbe mai saputo parlare di palazzi d’Europa, così Stefano non era in grado di raffigurarsi quelle donne e le loro carezze.
    Ma, come avviene, l’inesperienza lo faceva preoccupare soprattutto degli aspetti pratici; prima di tutto, l’angustiava il fatto dei soldi. Il Tortina gli aveva spiegato con precisione a quanto ammontasse la somma da pagare e chi avrebbe dovuto pagarla, tuttavia non riusciva a capacitarsene. Che rapporto c’era tra il denaro, che serve di solito per acquistare oggetti ben definiti e di qualità riscontrabile, e le carezze, le nudità, la carne femminile? Possibile ci fosse un prezzo davvero esattamente delimitato e non variasse secondo i casi? L’idea del denaro in cambio di quella vergognosa e proibita dolcezza gli pareva strana e crudele, come un’offesa, forse piacevole per chi l’arrecava, ma dolorosa per chi la riceveva. Era proprio vero che doveva consegnare quella somma direttamente alla donna e anche in sua presenza? Gli sembrava che doveva in qualche modo nasconderglielo e lasciarle l’illusione di un rapporto disinteressato. E comunque, non era troppo esigua la somma indicatagli dal Tortina? Valeva così poco quell’esperienza che doveva concludere un periodo di vita e dischiuderne un altro?
    Di fronte a tutti quei dubbi, decise di tenersi strette le informazioni del Tortina, forse fallaci, ma le sole su cui basarsi. La cifra della visita in villa non gli era sembrata superiore a quella dei suoi risparmi, da lungo accumulati e conservati in un salvadanaio di porcellana. Egli pensava di aspettare che sua madre fosse uscita per togliere il denaro dal salvadanaio, uscire a sua volta, correre a cercare il Tortina e recarsi con lui in villa. I soldi dovevano bastare per lui, ma anche per il Tortina che sapeva povero e comunque poco disposto a favorirlo senza un tornaconto personale. Questo era il piano e deliberò di mandarlo in atto con la stessa precisione con cui era stato pianificato nella sua testa.
    Eccitato, ansioso e liberato dal rimorso d’impotenza, fece quasi di corsa tutta la città fino a casa sua. Dal salotto giungeva la musica di un pianoforte. Entrò; la madre sedeva davanti alla tastiera e, accanto a lei, seduto su uno sgabello, Renzo. Era la prima volta che lo vedeva in casa e subito un presentimento gli fece mancare il respiro. La madre parve avvertire la presenza di Stefano e voltò la testa con un gesto di ignara civetteria, rivolto più al giovane che al figlio. Vedutolo, cessò subito di suonare e lo chiamò a sé.
    “A quest’ora ti presenti? Vieni qui”.
    Egli si avvicinò lentamente, pieno d’impaccio e ripugnanza. La madre lo attirò a sé, cingendo tutto il corpo con un braccio. Stefano vide gli occhi della madre che brillavano straordinariamente, di un fuoco giovanile e scintillante. Anche la sua bocca pareva soffocare un riso trepido che le bagnava i denti di saliva. E nel gesto d’abbracciarlo, avvertì una violenza impetuosa, una fremente gioia che quasi lo spaventarono. Egli non poté fare a meno di pensare che essa provasse sensazioni simili a quelle che poco prima provava lui mentre correva verso casa.
    “Dove sei stato?” chiese lei con una voce crudele ma allegra.
    Stefano non disse nulla, perché nulla pensava che sua madre si aspettasse di sentire. A quel modo sua madre parlava al gatto di casa. Chino in avanti, le mani riunite tra le ginocchia, gli occhi non meno scintillanti di quelli della madre, Renzo lo guardava e sorrideva.
    “Dove sei stato?” ripeté la madre con lo stesso tono: “Vagabondo che non sei altro”. Poi gli diede una carezza di tenera violenza, scompigliando i folti capelli e riconducendoli sulla fronte.
    “Non è vero che è così un ragazzo carino?” disse rivolta al giovane.
    “Bello come la mamma” rispose lui.
    La madre rise pateticamente. Stefano fece un gesto per divincolarsi, pieno di vergogna.
    “Vai a lavarti” lo sbrigò sua madre: “E fa presto che tra poco è pronto”.
    Stefano salutò Renzo e uscì dal salotto. Alle sue spalle ripresero le note musicali al punto preciso in cui erano state interrotte. La madre suonava e la musica pareva vivace e tumultuosa, del tutto simile allo stato d’animo che interpretò il figlio in lei. Era proprio una musica di quel genere, ma sua madre ci metteva del suo per renderla ancora più convincente.
    Poi improvvisamente la musica s’interruppe e Stefano fu sicuro che l’impeto della musica avesse trovato sfogo in qualcos’altro. Mosse due passi indietro e non si meravigliò di ciò che vide; il giovane stava in piedi e baciava sua madre sulla bocca. Rovesciata indietro sul basso ed esiguo sgabello, dal quale ogni parte traboccava il suo corpo piegato, la madre teneva ancora una mano sulla tastiera e con l’altra cingeva il collo di Renzo. Nella poca luce che si vedeva, Stefano poté notare il corpo torcersi all’indietro, il petto palpitante in fuori, una gamba ripiegata e l’altra tesa a premere il pedale. A contrasto con quella dedizione, il giovane pareva conservare la solita disinvoltura e compostezza; in piedi, girava un braccio sotto la nuca della donna, mentre con l’altro appoggiava salda la mano alla schiena dura.
    Il bacio fu lungo e parve a Stefano che Renzo volesse ogni volta interromperlo, ma che la madre, con insaziabile avidità, lo rinnovasse. Non poté far a meno di pensare che sembrasse affamata di quel bacio, come chi fosse stato a lungo a digiuno. Poi, con un movimento che fece con la mano, due-tre note gravi e dolci suonarono nel salotto.
    “Mamma…” disse Stefano muovendo un passo verso il salotto.
    Subito i due si separarono; Renzo fece una giravolta, si alzò e mise le mani in tasca sulla soglia della finestra.
    “Stefano!” chiamò d’istinto sua madre. Ansimava con tale violenza da vedersi il petto levare e abbassarsi sotto il vestito. I suoi occhi brillavano, la bocca semiaperta, i capelli arruffati.
    “Che c’è Stefano?” ripeté con voce rotta.
    Stefano sentì un tratto di pietà per quel tentativo di contegno, misto a una ripugnanza latente.
    “Ricomponiti” avrebbe voluto dirli freddamente: “Calmati, non ansimare a quel modo… E non parlarmi con quella voce”.
    Invece, quasi accentuando apposta con puerilità infantile nella voce, disse:
    “Posso rompere il salvadanaio? Voglio comprare un libro”.
    “Si tesoro” disse lei sporgendo una mano e accarezzandoli la fronte.
    Stefano, a contatto con quella mano, non poté impedirsi nel fare un balzo indietro; leggero e quasi impercettibile, ma che gli parve violento e visibilissimo.
    “Lo rompo allora” chiese conferma, ma senza aspettar risposta. Quindi uscì dal salotto.
    Corse i gradini e andò in camera sua; il salvadanaio stava sul tavolo, in fondo alla stanza buia. La luce del lampione, entrando per la finestra aperta, ne illuminava la pancia rosa e quel sorriso largo e nero. Stefano accese la luce, lo afferrò e con una specie di isterica violenza, lo sbatté contro il pavimento. Il salvadanaio si ruppe, vomitando fuori dal largo squarcio un mucchio di monetine. Chi avrebbe detto, pensò per un attimo, che lo avrebbe rotto e usato per una cosa del genere; accosciato a terra, con le dita tremanti per l’eccitazione e il timore, contò con furia i denari. Non poteva a fare a meno, durante il conteggio, di vedere le immagini dei due da basso, tanto che dovette riprendere più di una volta da capo. Come ebbe finito, scoprì che la somma non era sufficiente.
    Si domandò esasperato cosa dovesse fare e, per un momento, pensò di sottrarre i soldi alla madre, sapendo dove gli teneva. Nulla sarebbe stato più facile; quest’idea però gli parve troppo ingiusta e quindi decise semplicemente di chiedergli. Allo stesso tempo, sentì il suo nome essere chiamato per la cena. Mise in un cassetto il suo tesoro e scese.
    La madre era già seduta a tavola; Renzo era partito e lei era tornata alla solita tranquilla dignità. Stefano la guardò, meravigliandosi come in passato di non vedere segni del bacio di pochi minuti prima; non avrebbe saputo dire cosa provasse per quel sentimento e per quel gesto. Forse, un senso di compassione per la madre, di cui era destinataria, ma anche un ribrezzo per il ricordo che gli era rimasto. Egli presentiva che quel ricordo gli sarebbe stato per sempre impresso nella memoria.
    Come finirono di mangiare, Stefano pensò che quello era il momento giusto per chiedere il denaro. Seguì la madre entrata nella sua stanza e che ora sedeva davanti allo specchio studiando il suo viso.
    “Mamma” esordì.
    “Dimmi”.
    “Mi dai dieci euro?”;
    “Perché?”;
    “Per il libro”.
    “Non avevi detto che avresti rotto il salvadanaio?” domandò passandosi il piumino della cipria sul viso.
    “Ma se lo rompo, poi non ho più niente da parte…” rispose in maniera voluttuosamente puerile.
    La madre rise con affetto e lo guardò dallo specchio: “Sei sempre il solito”.
    “Prendi la borsa sul letto. C’è il portamonete. Dovrebbero essere sufficienti”.
    Stefano fece quanto detto, trovando quanto bastava.
    “Che cosa farai ora?” domandò lei.
    “Vado a prenderlo”.
    “Di sera? Però poi non rimanere sveglio fino a tardi”.
    Stefano la guardò; non l’aveva mai trovata così bella come quella sera. Il vestito bianco, di seta brillante, dava risalto al colore bronzeo e caldo della carnagione. Gli parve per un istante che avesse ritrovato tutta quella serena maestosità, seppur con un accezione differente. Stefano non poté più negare di osservare il suo fascino e la sensualità. Quando ebbe finito di prepararsi, spense le luci, si alzò e si chinò a baciare il figlio. Sfiorandole il collo con le labbra, non poté fare a meno di chiedersi se quelle donne laggiù nella villa fossero altrettanto belle e profumate.

    -

    Rimasto solo a casa, Stefano aspettò una decina di minuti prima di avviarsi. Riempite le tasche di monete, fu nella strada; prese a correre. Il Tortina abitava quasi dall’altra parte del quartiere e, sebbene la città fosse piccola, era comunque un bel tratto. Prese delle strade illuminate, attraverso la pineta, ora camminando in fretta, ora correndo, finché non scorse la casa del Tortina. Di giorno, quel luogo era allineato a banchine e bottegucce, odorando di pesce e catrame; ora permaneva solo questo. Stefano si fermò sotto una finestra spalancata e illuminata, da cui partiva un rumore di voci e stoviglie, come di gente che stava cenando. Modulò un fischio forte e due più sottili; era il segnale convenuto tra i ragazzi della banda. Quasi subito si affacciò qualcuno.
    “Sono io! Jesi!” disse Stefano con voce bassa e intimidita. Rispose proprio il Tortina.
    Questi scese presentandosi con il viso congestionato dalla birra bevuta, masticando ancora.
    “Voglio andare in villa” disse Stefano.
    “Ho i soldi per entrambi”.
    Il Tortina inghiottì con sforzo e lo guardò.
    “Quella villa?” chiese tonto.
    “Sì… Dove ci sono le donne…” rispose Stefano imbarazzato.
    “Ah…” esclamò ora che aveva capito.
    “Hai capito il Jesi… Bravo bravo… Mi preparo e vengo subito”.
    Egli corse via e Stefano lo aspettò sulla strada camminando sul posto, volgendo ogni tanto la testa alla finestra della casa. Costui si fece aspettare un pezzo e quando si ripresentò, Stefano quasi non lo riconobbe. L’aveva sempre visto ragazzotto in pantaloni rimboccati o seminudo in spiaggia e in mare; ora gli era davanti un specie di giovane operaio in vestiti scuri di festa, pantaloni lunghi, giubba e colletto.
    Pareva più vecchio, anche per via della lacca con cui aveva reso lisci e compatti i suoi capelli di solito arruffati; e nei panni lindi, rivelava una qualità melensamente cittadina.
    “Possiamo andare” disse il Tortina avviandosi.
    “Ma è ora?” domando Stefano correndogli affianco.
    “Sì, non si sposta” rispose questi ridendo.
    Presero una strada diversa da quella che Stefano aveva percorso venendo.
    “Ci sei già stato là?” chiese Stefano.
    “Lì no”.
    Il Tortina non pareva avere fretta e il suo passo era il consueto.
    “Questa è ora di cena e avranno appena finito di mangiare. Non ci sarà nessuno là” spiegò a Stefano.
    “Quindi è il momento buono” aggiunse.
    “Perché?”.
    “Perché potremo scegliere con calma quella che più ci piace”.
    “Perché quante sono?”;
    “Quattro… O cinque”.
    Stefano voleva chiederle se erano belle ma si trattenne.
    “Come… Si fa?” lo interrogò. Il Tortina gliel’aveva detto ma, permanendo in lui quel senso invincibile di irrealtà, voleva risentirselo dire.
    “Come si fa? E’ semplicissimo… Vai dentro, si presentano e si dice ‘buonasera signorine’… Si fingono due chiacchiere, tanto per avere il tempo di guardarle bene, e poi se ne sceglie una… Prima volta eh? Emozionato?”.
    “Veramente…” incominciò Stefano un po’ vergognoso.
    “Ma smettila…” lo interruppe brusco: “Vuoi dirmi che non lo è? Queste storie puoi raccontarle agli altri, ma non a me… Comunque non temere” soggiunse.
    “Che cosa?”;
    “Stai tranquillo dico… La donna fa tutto lei… Lascia fare a lei…”.
    Stefano non disse nulla; quest’immagine evocata dal Tortina, in cui la donna l’avrebbe introdotta all’amore, gli piaceva e lo tranquillizzava, riuscendogli dolce e materno.
    “Ma… Mi vorranno a me?” domandò dandosi un occhiata alle gambe nude.
    La domanda parve per un attimo imbarazzare il Tortina.
    “Dai andiamo” disse con falsa disinvoltura: “Una volta lì, troveremo il modo di farti passare…”.
    Da una stradina sbucarono alla piazza; tutta al buio, eccetto per un lampione che illuminava un gran tratto di terreno sabbioso e ineguale. Dove l’oscurità era più fitta, Stefano riconobbe le persiane bianche della villa. IL Tortina si diresse con sicurezza; ma, quando furono al centro della piazza, sotto la luce della falce della luna, si fermò.
    “Dammi i soldi Jesi… Meglio che li tenga io”.
    “Ma io…” protestò Stefano che si fidava poco del Tortina.
    “Me li dai o no?” insistette brutalmente. Stefano, un po’ intimorito e poco desideroso di discutere glieli diede, vuotando le tasche.
    “Ora non parlare e seguimi” ordinò il Tortina.
    Il cancello era accostato; questi lo spinse ed entrò nel giardino. Anche la porta era socchiusa e i due entrarono senza segnalare la loro presenza. Il loro ingresso aveva scatenato una suoneria scampanellante. Quasi subito, un’ombra massiccia, come di una persona seduta che si alzi, si profilò dietro i vetri e una donna comparve tra i battenti. Era una specie di cameriera corpulenta e matura, con un vasto petto vestito di nero. Comparve avanzando il ventre, le braccia penzolanti, e il viso gonfio, immusonito e sospettoso sotto la sporgenza dei capelli.
    “Siamo qui” annunciò il Tortina. Stefano comprese che anche questi, di solito spavaldo, era intimorito.
    La donna gli scrutò senza benevolenza, quindi, in silenzio, accennò al Tortina di passare. Questi sorrise rinfrancato e si lanciò verso la porta a vetri.
    “Tu no” disse la donna stringendo la spalla di Stefano, pronto a seguirlo.
    “Come? Lui si e io no?” domandò Stefano perdendo un attimo la timidezza.
    “Veramente nessuno dei due” disse la donna guardandolo fisso.
    “Ma passi per lui… Tu no”.
    “Sei troppo piccolo Jesi” commentò il Tortina beffardo. E, spinta la porta a vetri, scomparve.
    “Ma io… I miei soldi…”.
    “Via ragazzo. Torna a casa” lo sbrigò la donna. Ella andò alla porta, la spalancò, e si trovò faccia a faccia con due uomini che entravano.
    “Buona sera!” disse il primo di quelli, un uomo con la faccia rossa e gioviale.
    “Siamo intesi eh… Se la Marina è libera, la prendo io… Niente scherzi”.
    “E questo qui che vuole?” domandò lo stesso sorpreso dalla presenza di Stefano.
    “Voleva entrare” spiego la donna.
    “Volevi entrare? Alla tua età si sta a casa… A casa… Vai” gridò agitando le braccia.
    “E se lo facessimo entrare?” osservò l’altro: “Io alla sue età già facevo l’amore”.
    “Ma cosa?! Via! Via!” perseverò il primo uomo.
    “E’ quello che gli ho detto” si giustificò la donna.
    Stefano, senza neppure rendersene conto, si trovò fuori nel giardino.
    Tutto era finito male; il Tortina lo aveva tradito, fregandogli i soldi, ed era stato cacciato. Non sapendo che fare, retrocedette nel viale. Provava un senso di bruciante disappunto, soprattutto per via di quei due che l’avevano trattato in quel modo, come un bambino. Gli strilli dell’uomo gioviale, così come la benevolenza fredda e ipocrita dell’altro, non erano meno umilianti dell’ostilità della guardiana. Si avviò verso il cancello; qui osservò che tutta una parte del giardino, sul lato sinistro della villa, appariva illuminata da una luce forte che partiva da una finestra aperta al pianterreno. Gli venne in mento che, attraverso quella finestra, avrebbe potuto almeno gettare un occhio nella villa. Attento a far meno rumore possibile, s’avvicinò alla luce.
    La stanza che vide era piccola e fortemente illuminata; le pareti tappezzate di una vistosa carta a grossi fiorami verdi e neri. Una tenda rossa assicurata con anelli di legno a una stecca, pareva nascondere la porta. Non c’erano mobili; qualcuno sedeva in un canto, e se ne vedevano solo i piedi, pensò Stefano, di un uomo accomodato in poltrona. Deluso, stava per ritirarsi quando apparve una donna.
    Indossava una corta veste azzurrina e trasparente, che giungeva fino a metà coscia. Le membra della donna erano pallide e lunghe, quasi fluttuanti in curve indolenti. La veste, per una bizzarria che colpì Stefano, si allargava sul petto in una scollatura ovale che giungeva fino alla cintola e i seni, tondi e gonfi, nudi e serrati l’uno contro l’altro; poi la veste si ricongiungeva al collo. Ella aveva i capelli disfatti sulle spalle, ondosi e bruni, un viso piatto e pallido, di una puerilità viziata e un espressione capricciosa negli occhi stanchi e nelle labbra arricciate e dipinte. Uscì dalla tenda un lungo momento, in atteggiamento d’attesa e senza parlare. Pareva guardare l’angolo dove sedeva l’uomo. Quindi in silenzio com’era venuta, voltò la schiena e scomparve nella tenda. I piedi dell’uomo fecero un rumore e si ritirarono; poi ci fu un rumore di qualcuno che s’alzasse. Stefano impaurito si ritirò dalla finestra.
    Torno sul viale, spinse il cancello e uscì dalla piazza. Nulla era accaduto, pensava; non aveva posseduto una donna, aveva perso i soldi e il giorno dopo sarebbero ricominciate le beffe e il tormento dei rapporti con la madre. L’unica immagine di quella donna ritta nella veste azzurrina non era sufficiente a fugare un bel nulla.
    Correva lungo le vie principali della città, come cercando di scappare da tutti quei pensieri. Giunto al prossimare della pineta, una voce lo raggiunse.
    “Jesi! Jesi da questa parte!”.
    Era la voce del Samu. In un primo momento, Stefano pensò d’ignorarla e continuare nella sua corsa piena di significato; poi s’arrestò.
    “Dove corri?”;
    Stefano lo guardò. Samu era vestito come sempre, di quell’ordinaria umiltà abbellita dal suo aspetto aggraziato. Come si fosse accorto nel viso del compagno tutta quella cupezza, chiese:
    “Che hai?”;
    “Niente” s’affretto a rispondere l’altro.
    “A me puoi dirlo” lo rassicurò.
    Stefano, che in Samu continuava a vedere l’unico ragazzo della banda che gli rivolgeva un po’ di dolcezza, si aprì un poco.
    “Il Tortina… Mi ha fregato”. Ma questi aveva già perso d’interesse a metà frase.
    “Stavo andando a prendermi un gelato. Ti unisci?” lo interruppe lui. Fece un cenno con la mano, indicando un posto vicino di loro conoscenza.
    “Non ho soldi” rispose Stefano.
    “Per un gelato ti posso anticipare io”. Quasi stupito di quella rara gentilezza, Stefano non osò rifiutare.
    “Che dicevi?” domandò Samu, mentre questi si avvicinavano alla gelateria.
    “Tortina… Siamo andati alla villa infondo… Quella di questo pomeriggio… Dove ci sono le donne...”. Stefano spiegò nei dettagli la sua storia. Quando finì, entrambi avevano ordinato e preso il loro gelato, avviandosi verso la pineta, con la decisione di attraversarla e accompagnare Stefano.
    “Di che ti stupisci? E’ normale ti abbiano cacciato” commentò Samu.
    “Anche a me piacerebbe… Ma alla nostra età è ovvio che non ci facciano passare”.
    La strada era deserta come all’andata; giunti della chiesetta estiva del posto, si sederono su una panchina. Dietro di loro c’era un piccolo parcheggio e qualche tavolino intagliato nel legno tra i pini. Dietro ancora, la chiesetta illuminata dalla luce dei lampioni.
    “Certo che… Jesi sei un tipo strano…” commentò d’improvviso Samu leccando la sua pallina di limone e guardando avanti.
    Stefano, sempre in silenzio, lo osservò.
    “Sembri così… Timido e riservato… Poi però fai certe cose… Con il Gaggio… Ora con le donne” confidò lui.
    Stefano sapeva che il Samu la pensava esattamente come gli altri; avrebbe voluto intervenire, dicendoli che si sbagliava, almeno sul Gaggio. Sapeva anche bene che però non sarebbe stato creduto; dopotutto, lui stesso aveva confermato quella versione.
    Era arrivato a mangiare il cono di biscotto, quando, senza qualche cenno d’anticipo, strinse il polso di Stefano e disse di seguirlo.
    “Ci siamo appena seduti” osservò Stefano.
    “Vieni” si limitò a dire l’altro. Questi scavalcò il basso cancelletto di legno della chiesetta deserta.
    “Vieni” ripeté.
    “Perché? Dove mi porti?” chiese Stefano che però l’aveva già imitato.
    Giunti in prossimità di uno dei tanti pini qualsiasi tra le panche all’aperto, Samu gli fece cenno di fermarsi.
    Intimorito dalle ombre, Stefano s’appoggio al grosso tronco del pino dietro di lui e si guardò attorno, continuando a mangiucchiare; la luce lontana che proveniva dalla strada era ora distante e disturbata dalla radura. Per quello che si sforzò a scrutare, non c’era nulla da vedere.
    “Che c’è?” chiese a Samu.
    “Volevi andare alla villa? Ebbene facciamo qui” disse lui con naturalezza.
    Stefano non capì esattamente, ma gli parve di intuire che ci fosse una qualche nuova intimità in atto.
    “Cosa?” domandò.
    Samu, che interpretò quella domanda come un segno di timidezza più che un messaggio d’incomprensione, sghignazzò.
    “Come? Con il Gaggio si e con me no?”. Quasi impercettibilmente, nascosto dal buio, Stefano sobbalzò; un senso di oscura contentezza lo assalì, perché finalmente avrebbe potuto capire qualcosa di più. Allo stesso tempo, l’assalì un forte turbamento. Non solo Stefano non sapeva come funzionasse nella pratica, ma neppure era sicuro di volerlo a quel modo. Il Tortina gli aveva detto che alla villa avrebbe fatto tutto la donna. Ma ora? Inoltre, aveva cercato quella villa per un chiaro intento di sfatare il rapporto con sua madre e pensava che il servizio di Samu, per quanto riteneva inconsapevolmente questi l’unico ragazzo che poteva vedere in diversa luce, non avrebbe portato alcun beneficio a tale causa.
    “Tira giù” disse Samu.
    Dopo qualche titubanza, Stefano, pieno d’impaccio e riluttanza, snodò i lacci del costume rosso elasticizzato, facendolo scendere; si sentiva ridicolo e gli sembrava di comportarsi in maniera non dissimile dalla madre quando, nelle prime gite in barca con Renzo, doveva gettarsi in acqua tra le braccia del giovane.
    Senza quasi accorgersi, Samu toccava le sue intimità. Come riusciva con quella naturalezza, Stefano non riusciva a capirlo; era come quando si erano spogliati al Plauno e lui era rimasto inorridito da tanta promiscuità. Anche questa volta, non riusciva a provare nulla più che ripugnanza.
    Stefano, con Samu calato nelle sue ginocchia come in preghiera, guardava altrove, troppo vergognoso per controllare cosa stesse accadendo laggiù nei dettagli.
    “Non ti tira?” disse Samu dopo un poco.
    Stefano, che non capiva cosa intendesse, non disse nulla. Cosa sarebbe dovuto succedere?
    L’altro, non ottenendo né risultati, né risposte, si alzò in piedi e, nel farlo, si calò anch’essi i lunghi jeans perlacei. Un fanale nella strada, mostrava una striscia di pelle bruna in quella gamba sottile, muscolosa e piacente. Non parve deluso quando chiese:
    “Fai tu allora…”.
    Stefano non fece a modo di chiedere illustrazioni, che, con una gentilezza che in primo momento apprezzò, gli prese la mano nella sua, portandola verso di lui e verso il basso.
    Stefano afferrò con acceso imbarazzo; lo sentì allo stesso tempo viscido e freddo, ma anche caldo e pulsante. C’era qualcosa di strano, ma non ne rimase poi così sorpreso. A differenza del suo, quello di Samu sembrava molto più grande e robusto. Come se fosse la cosa più naturale al mondo, cominciò a muovere leggermente la mano, quasi per riuscire a studiarne il perché. Fino a quando Stefano ricordò qualcosa che pareva avesse dimenticato in uno dei suoi sonni profondi. Era successo in passato che, anche lui, in qualche momento dimenticato nel tempo, avesse avuto la visione chiara di un mutamento delle sue intimità e ricordava anche quando questo era successo. Eppure, non se n’era avveduto e s’era semplicemente dimenticato di tutto.
    Finalmente, parve comprendere che quella caratteristica era una dimostrazione di apprezzamento. Poco dopo, Samu ne diede conferma.
    “Assomigli a tua mamma…” sussurrò con una voce bassa e distratta e respirando profondamente. Pareva davvero comportarsi come la madre qualche momento prima seduta davanti alla tastiera
    “Come si chiama?” chiese.
    “Franziska” rispose lui prontamente, senza mollare le intimità del Samu.
    “Che nome è?”;
    “E’ austriaca…”.
    “Sì, come tua mamma… Sei carino…” disse lentamente con una strana dolcezza nella voce.
    Stefano, che continuava titubante, quasi concentrato, a soddisfare il desiderio di Samu, percepì appena il complimento e il suo valore. Si chiedeva più che altro quando avrebbe dovuto smettere e se avesse dovuto fare qualcosa in particolare. Tutto gli pareva ovvio e, al contempo, oscuro. Percepiva qualcosa di naturale, ma anche di sbagliato. Però, se Samu era disposto a farlo a lui, doveva essere normale anche l’incontrario. I dubbi attanagliavano la mente di Stefano; Samu però non sembrava in grado di risolverli, non almeno in quel momento.
    Ancora una volta, un movimento di Samu scosse e lo sorprese trasognante. Questi aveva appoggiato le labbra su quelle sue. Percepì il calore profondo del suo respiro trattenuto, così come quello delle labbra che gli parvero morbide ma anche taglienti. Tutto stava accadendo troppo velocemente perché Stefano potesse recepire. Guardò il compagno su di lui a occhi chiusi; perché, se fino a d’ora si era comportato appena come un amico, si comportava così? Che cosa si era acceso in lui e quando? D’un tratto Stefano generalizzò che le persone potessero mutare la forma dei loro sentimenti a comando.
    Dopo qualche secondo che gli apparvero anni, Samu mollò le sue labbra
    “Gli stessi capelli neri, però gli occhi diversi…” disse sorridendo. E gli parve che quel viso fosse più acceso e gli occhi luminosi e luccicanti, piedi di vivida gioia, come quelli della madre qualche ora prima a casa. Era lui però ora ad arrecare quelle emozioni; e da questo ne traeva un contorto compiacimento.
    “Puoi andare giù?” chiese con falsa timidezza e indicando con un movimento del capo la mano di Stefano.
    “Che devo…” cominciò questi, pieno d’impaccio, piegando le ginocchia, senza finire la frase.
    “Usa la bocca… La lingua…” sussurrò lui.
    Quest’ultimo, rimase fermo ad aspettare, vergognoso e incerto. La lingua?
    Quindi, superando un pudore che sembrava un macigno, s’avvicinò a quella zona così calda e odorosa. Quindi, nel più totale imbarazzo, quasi la temperatura fosse notevolmente più bassa, diede atto alla richiesta di Samu.
    Seppur non poteva esserne certo, gli parve che questi si fosse mosso.
    “Così?” domandò.
    “Sì” rispose immediatamente.
    Quindi, quasi ignaro di ciò che stesse realmente facendo, e rassicurato dalla voce convinta di Samu, ripeté più volte e con più vigore lo stesso atto.
    “Puoi metterlo… Dentro?” sussurrò Samu vergognoso, quasi se non volesse farsi sentire che da se stesso.
    “Apri Jesi!” ordinò quasi volesse nuovamente dimostrare di essere il solito Samu.
    Stefano ubbidì; Samu tornò con la mano e con un gesto, lo mise all’interno. Con grande lentezza, come se fosse schifato, Stefano accorciò le labbra, toccando le pareti del coso di Samu, inorridito dall’idea che qualcosa sarebbe uscito da lui. Dopo qualche attimo, sentendo che non succedeva nulla, cominciò, così come faceva prima con la mano, a muoversi un poco.
    Le dita di Samu erano davanti a lui, strette nella presa e salde. Nulla di quel momento rimase impresso a Stefano come l’odore potente e simile delle sue mani e del suo coso, solo di diversa gradazione, così come il calore animale di quest’ultimo.
    D’un tratto, Samu cominciò a muovere piano piano le anche e, di conseguenza, muoversi dentro la bocca. A Stefano tutto appariva sempre più difficile e quasi apprezzò che Samu avesse cominciato ad accarezzare con le mani i suoi capelli. Quel gesto, che aveva una sua utilità ben definita, gli parve quasi d’amicizia. Eppure, Samu sembrava sempre meno Samu; ogni momento che passava, ogni spostamento del bacino, apparivano portargli via il controllo. A un certo punto, i movimenti furono così profondi e decisi che Stefano pensò di soffocare. La presa però si era fatta più salda, quasi come quella del Gaggio poco tempo addietro alla sua mano. D’istinto, Stefano strinse le dita ai fianchi delle cosce di Samu che, toccate per la prima volta, apparivano dure e lisce al tatto. In quel momento, però, a Stefano premeva solo allontanarsi. Ma non lo fece con convinzione; la sua natura, gentile e delicata, gli suggeriva di non essere scortese con Samu che, fino a quel momento, a suo modo di vedere, non aveva oltrepassato il limite. Eppure, le sue carezze apparivano sempre più delle strette su quei bruni e folti capelli, resi rossastri sulle punti a causa di colpi solari.
    Ci fu un momento, che durò non più di qualche secondo che, in ginocchio sul terreno sabbioso e pungente per gli aghi di pino secchi, e i piedi affossati nella sabbia, Samu parve cercare l’ugola. Infine, diminuì l’intensità fino ad arrestarsi, ma, al contempo, qualcosa di molle e umido era ora sceso e rimasto nella bocca di Stefano. Per un istante pensò che questi gli avesse urinato, ma poi quell’orrore scomparve perché Stefano si rendeva conto che era troppo poca quella sostanza, non più di qualche goccia, e percepiva questa densa e tiepida e non salata e calda.
    “Se vuoi puoi sputarlo…” disse Samu ansimante dopo che non parlava da un po’. Samu sapeva di cosa si trattasse. Solo ora, Stefano ricordò che, in mille modi diversi, gli altri ragazzi della banda gliene avevano parlato; e d’improvviso, divenne acceso di vergogna.
    Stefano lo osservò, poi lo guardò uscire dalla sua bocca. Numerose bave erano attaccate alla grossa punta del suo scroto, sia ai lati che al centro.
    Questi fece una smorfia e si pulì leccando la lingua calda e umida sul palmo della mano. Capiva e non capiva. Era dunque quello? Ma lui non aveva provato nulla se non timore e ribrezzo. Aveva solo intuito il piacere di Samu. L’unica cosa che, in una maniera inconsapevole lo attirava, era sapere che questi provasse qualcosa di strano nei suoi confronti. Qualcosa che assomigliava al rapporto con sua madre e il giovane e, al contempo, era diverso, forse sbagliato.
    Dopo quel momento, ora che Samu aveva finito, questi pareva tornare quasi alla sua compostezza.
    “Scusa non ho voglia di contraccambiare” disse freddo.
    Stefano annuì, comprendendo che l’amico pensasse che questi lo desiderasse.
    Quasi vergognoso di quello che era successo, Samu lo salutò incerto, avviandosi verso caso e venendo meno alla promessa di accompagnarlo a casa. Stefano rimase qualche momento ritto di fronte a quel tronco di pino, guardando il compagno scavalcare il cancelletto, mentre questi si puliva alla bene e meglio la mano destra sulla corteccia dell’albero.
    Era dunque quello il motivo di tante beffe da una parte e tante civetterie dall’altra? Solo quello? Stefano rimuginava con occhi persi verso il cielo buio, illuminato solo dalla flebile luce della luna. No, non poteva essere. Anche quell’esperienza, quel favore del Samu, era parziale, incompleto ed erroneo. Se le ricerche fossero finite lì, quello non bastava per spiegare niente.

    -

    Giunto a casa, udì la voce della madre.
    “Ciao caro, sei tornato” disse ella vedendolo rincasare; non l’aveva notata perché questa si trovava in angolo buio sotto le scale, intenta a togliersi le scarpe. Vedendo il figlio taciturno, domandò:
    “Che c’è?”.
    “Mamma” rispose con voce quasi violenta: “Vorrei partire domani” disse sempre con quel tono forte ed esasperato, cercando di trovare il viso della madre nel buio.
    “Perché? Che hai? Non ti trovi bene qui?”;
    “Vorrei partire domani” ripeté.
    “Vediamo…” disse lei dolcemente; quindi si alzò e scalza, con passo leggero su quei piccoli piedi che Stefano immaginava sensuali quanto la sua figura, gli si avvicinò passandogli la mano sulla fronte, quasi avesse temuto fosse febbricitante. La madre era in camicia, ma in quella posizione piegata era possibile osservarne la scollatura.
    “Perché vuoi partire?”.
    Stefano non disse nulla. La camicia le ricordava la veste della donna della villa; stessa trasparenza, stesso pallore della carne dolente e offerta. Soltanto che, sua madre, era molto più bella. Tutto ciò non gli faceva che ricordare l’esito della serata.
    “Perché vuoi partire?” ripeté lei.
    “Tu mi tratti come un bambino” disse d’un tratto lui, non sapeva neanche perché, pur di rispondere qualcosa.
    Lei rise e gli accarezzò la guancia.
    “Allora d’ora in avanti ti tratterò come un uomo… Va bene così? Ora vai a dormire” lo liquidò lei con dolcezza e affetto, chinandosi e dandoli un altro bacio, ora sulla guancia, proprio vicino alla bocca. Stefano avrebbe voluto scostarsi, spaventato dall’idea che essa passasse dove poco prima era stato Samu; ma, conscio che le tracce di baci o altri gesti inconsunti non potevano essere visti così facilmente, si lasciò fare.
    Quindi, si diresse in camera, con l’intento di addormentarsi. Come un uomo, non poté fare a meno di pensare prima di conciliarsi con il sonno. Ma Stefano non era un uomo; e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse.
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